L’ultima volta che l’inflazione negli Usa aveva toccato il 7%, ET telefonava a casa. Era il 1982. Non c’è voce scorporata che non abbia segnato un aumento record. Il Core CPI è al massimo dal febbraio 1991 con il suo +5,5% su base annua, il prezzo degli affitti è salito del 4,13% su base annua dal 3,84% del mese precedente, massimo dal febbraio 2007. Ma non basta. L’inflazione dei servizi è salita del 3,7%, massimo dal gennaio 2007, mentre quella dei beni del 10,7% su base annua, primato dal maggio 1975. Praticamente, un armageddon.



Eppure i mercati hanno reagito come se nulla fosse. Anzi, hanno festeggiato. Certo, il dato record era atteso. Certo, in molti ancora credono alla narrativa della transitorietà. Ma c’è dell’altro. E ce lo mostrano questi grafici: il lumber, il legname da costruzione che la scorsa primavera a operato da canarino (inascoltato) nella miniera, è tornato a salire, così come in continuo aumento è il prezzo degli olii per uso alimentare, sia la colza europea che la canola statunitense. Di fatto, un altro regalo della transizione energetica, visto che gli olii vegetali sono molto richiesti per la produzione di bio-carburante.



C’è un problema, però: essendo un ingrediente fondamentale di moltissimi cibi confezionati, quelli più a buon mercato e di più largo consumo, ecco che un rialzo dei prezzi nel carrello della spesa è da considerarsi assicurato, da qui ai prossimi mesi. Infine, la dinamica peggiore, quella rappresentata nel terzo grafico: il gas naturale Usa nella giornata di mercoledì ha segnato un incremento intraday del 13,3% a causa dell’ondata di gelo che ha cominciato ad abbattersi sulla East Coast statunitense. Tradotto, se la pressione rialzista continuerà – supportata da previsioni meteo inclementi per la parte finale dell’inverno -, l’arbitraggio garantito dallo spread di prezzo fra gas Usa e Ue potrebbe perdere di appeal per i brokers. I quali, di fatto, sancirebbero la fine dell’unica risorsa su cui a oggi l’Europa può contare per evitare prezzi ulteriormente alle stelle e rischio black-out. Ovvero, le flotte dirottate dalle tratte asiatiche in nome del profitto.



Insomma, un quadro tutt’altro che incoraggiante. Persino per il mercato più ottimista. Anche perché il vero disastro è rappresentato in questo grafico: le dinamiche salariali reali a livello orario negli Usa hanno segnato un -2,4% su base annua, raggiungendo il poco invidiabile filotto di nove cali mensili consecutivi. Insomma, il costo della vita sta grandemente operando in outpacing rispetto agli aumenti nelle retribuzioni reali. E questo dovrebbe spaventare il mercato, quantomeno in un’economia come quella Usa che vede ancora il 70% del Pil basato sui consumi personali. Invece, calma piatta.

Davvero c’è la convinzione di una transitorietà solo un po’ più prolungata del previsto? No, c’è dell’altro. E lo lascia intendere chiaramente Bank of America nella sua analisi, racchiudendo decine di dati in un’unica asserzione: Increasingly the risks are that it will land closer to 3% than the Fed’s 2% target. Insomma, la profondità e l’ampiezza degli aumenti dei prezzi è tale da non poter escludere che il punto di caduta sul medio termine non possa scendere al di sotto del 3%. Ovvero, un punto percentuale in più della quota obiettivo della Fed. La banca d’affari, infatti, ritiene che il Core CPI dovrebbe raggiungere il picco nel prossimo mese di marzo, garantendo poi letture su base annua più contenute, ma è il medio termine che lascia interdetti.

O magari, no. Magari si è lasciato galoppare i prezzi per mesi, vendendo al mondo la favola della transitorietà sfruttando l’effetto placebo sui redditi dei programmi di supporto pandemico, proprio per ottenere un plafond più alto e una nuova prospettiva di approccio monetario. Non a caso, Christine Lagarde lo scorso luglio stupì tutti imponendo al board nell’ultima riunione prima della pausa estiva nientemeno che la riforma della guidance proprio sul target di inflazione, inventandosi la formula del 2% simmetrico. Ovvero, flessibilità estrema attorno alla quota obiettivo. Perché tanta fretta, oltretutto su un argomento esiziale per un’istituzione che ha nella stabilità dei prezzi il suo mandato statutario?

Paradossalmente, un risposta potrebbe essere arrivata mercoledì dagli Usa. E una volta fatto passare il concetto binario di target inflazionistico flessibile e aumento strutturale del reddito medio, grazie alla messa in campo dei vari strumenti contenuti nella cassetta degli attrezzi delle emergenze cicliche, ecco che senza bisogno di continue revisioni ufficiali, l’assunto generale diverrà quello di un’inflazione tollerabile fino a livelli ritenuti oggi in prospettiva di over-shooting. Quindi, politiche di aumento dei tassi che divengano decisamente meno legate a dinamiche ritenute antiquate e più consone a un mondo ormai abituato a un regime di tassi a zero perenni.

Esattamente ciò che vuole il mercato. Il quale, come da tradizione, prezza e incorpora in anticipo i processi in divenire. E festeggia, nemmeno troppo paradossalmente, ma anzi con giusta soddisfazione, il 7% di inflazione negli Usa o il 5% nell’Eurozona.

Benvenuti nel nuovo mondo, dove a comandare è il debito e la sua monetizzazione. Andrà tutto bene. Forse.

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