Tutti (o quasi) contro il Mes. La ragione? Apparentemente inattaccabile: non può essere un’istituzione sovranazionale non eletta e non rappresentativa – nella fattispecie, addirittura una banca, di fatto – a decidere scelte e destini di intere nazioni ed economie. Altro che riformarlo, per questo il Mes va chiuso. E fin qui, posso trovarmi d’accordo. In linea di principio.



Ora, però, partendo da questo presupposto, chiedo: perché? Perché un Governo sedicente e auto-proclamatosi sovranista e così fortunato da poter gestire la nomina del nuovo Governatore di Bankitalia (indirizzando il nuovo corso), deve prendere e paracadutare nel proprio direttorio una funzionaria della Banca centrale Usa e nominarla vice-direttrice generale? E la neo-eletta, Chiara Scotti, non è una cosiddetta poster-woman in America, una figurina di bell’aspetto in ossequio alle quote rose. E non lo sarà nemmeno a palazzo Koch. Il curriculum è di quelli pesanti. Perché, allora? Se fosse accaduto sotto il Governo Draghi, gli echi del Britannia e della svendita del Paese allo straniero che non deve passare, altrimenti il Piave si offende, avrebbero accompagnato la scelta.



Certo, Bankitalia non batte più moneta. Di fatto, il suo ruolo è quello di acquistare pro quota debito per conto della Bce. Perché diciamolo chiaro, ormai alla fine conta solo il Qe. Anzi no. Bankitalia sovrintende formalmente alle riserve auree. In questo caso, proprio Mario Draghi si rese protagonista di una mezza gaffe che attribuiva la proprietà dei nostri lingotti all’Eurotower. Tutt’intorno, dubbi sulla reale accessibilità a quell’enorme tesoretto di riserva. E a prova di inflazione o crisi globale. Resta il fatto che Chiara Scotti, bocconiana, certamente non potrà offrire ricette made in Usa alla nostra Banca centrale. E per fortuna. Jerome Powell deve infatti tenere insieme Dallas e New York, Boston e Chicago. Non Roma e Berlino o L’Aja e Atene. O forse a palazzo Koch si preparano a qualcosa di diverso e decisamente drastico? Qualcosa che necessita l’esperienza in campo di swap lines, ad esempio. O di Primary Dealers nella nobile arte dell’emissione record di debito.



Comunque sia, tira un’aria strana. Ad esempio, i siti della Pa lunedì pomeriggio sotto finiti attacco hacker russo (è l’ora degli evergreen, i blazer blu della destabilizzazione escono dagli armadi e prendono aria). E nel caos totale, due certezze. Primo, avrebbero chiesto un riscatto. Secondo, sarebbero stati a rischio gli stipendi di dicembre dei dipendenti pubblici. Pericolo invece sventato a tempo di record, in quest’ultimo caso. Stress test? Che strane coincidenze, comunque. E che strane tempistiche. Nel frattempo, mentre gli Houthi si sono trasformati nel gruppo terroristico più potente della Terra, gli Usa mettono insieme una coalizione dal nome evocativo e pittoresco per difendere il passaggio cruciale del Mar Rosso: Operation Prosperity Guardian, roba che negli studi di Netflix – dove probabilmente è stato coniato – già si lavora alacremente per essere in onda a inizio febbraio. Sarà ma il rischio di false flag è terribilmente vicino. Quanto l’Iran. E se si vuole coinvolgere l’Arabia Saudita nel programma Imec di contrasto alla Via della Seta, occorre tentarla con qualcosa di molto, molto ghiotto. Ad esempio, la testa degli ayatollah su un piatto d’argento. La fine dei Pasdaran e di Hezbollah, la fine dell’Iran khomeinista 2.0. La primavera iraniana e lo Scià immaginario della libertà social e digitale che libera il Paese. Netflix già sta scrivendo i copioni.

Una cosa è certa: toccare Teheran significa toccare gli interessi di Pechino e Mosca. Ma Israele sempre lunedì è stata chiara: se falliranno i colloqui, attaccheremo il Libano. A quel punto, mancherà la Siria. Poi sarà il caos, la maieutica della guerra e della destabilizzazione, i cavalieri di ventura e le anime nere. Se invece a voi pare che vada tutto bene, chiedetevi perché un’intera classe politica non parli d’altro che del pandoro della Ferragni. E perché nessuno abbia da ridire sull’amica americana paracadutata a palazzo Koch.

Per capire cosa sia davvero importante all’interno di un’agenda di politico-economica, le voci cui prestare attenzione sono infatti quelle agli avvenimenti a margine. O, in caso di particolari necessità di mistificazione, al più elegante a latere. Come per i contratti, ciò che davvero conta sono le postille. E le note a piè di pagina, proprio quelle che necessitano il microscopio.

Piccolo rewind. Lo scorso 9 e 10 settembre a Nuova Delhi si tenne il G20 dedicato al tema Una terra, una famiglia, un futuro. Al centro della discussione, nemmeno a dirlo, i cambiamenti climatici. Al centro, appunto. Ma a margine di quei due giorni di incontri e roboanti slogan, fu annunciata la costituzione formale dell’Imec.

L’ennesimo, vuoto acronimo da consesso globale? No, l’alternativa alla Via della Seta cinese, di cui si è appena festeggiato il decennale. E all’Instc (International North-South Transport Corridor), il corridoio di trasporto multimodale costituito nel settembre 2000 a San Pietroburgo da Russia, Iran e India. L’Imec si inserisce nel più ampio programma Partnership for Global Infrastructure Investment – a guida Usa – e del Global Gateway Project della Commissione europea. L’obiettivo? Mobilitare 600 miliardi di dollari entro il 2027 per colmare il gap degli investimenti infrastrutturali tra Nord e Sud del mondo, promuovere innovazione digitale e green economy e tutelare le catene di approvvigionamento del valore e le principali arterie e snodi del commercio mondiale.

Fate attenzione alle date. E unite i puntini. Il 9 e 10 settembre, G20 a Nuova Delhi con presentazione dell’Imec. Un mese dopo, 7 ottobre, l’attacco di Hamas. E conseguente risposta israeliana che innesca la crisi mediorientale ancora in atto. A latere della quale, accade ciò che è mostrato dalla cartina nei commenti: una concentrazione di attacchi senza precedenti nel Mar Rosso e a ridosso di uno degli snodi centrali dei traffici commerciali marittimi globali. Tanto per mettere la questione in prospettiva, solo da Suez e Bab-el-Mandeb passono 10 milioni di barili di petrolio al giorno. Ma 16,8 da Hormuz. E 15,7 da Malacca. E parliamo solo di petrolio. La stessa commodity, però, da settimana al centro di una guerra strisciante fra Opec e Occidente, finora vinta da quest’ultimo. Anche a livello finanziario, stante il Grand Guignol di posizioni ribassiste record cui abbiamo recentemente assistito. E con gli Usa alle prese con il refill delle riserve strategiche, ancora ai minimi dagli anni Ottanta.

A metà ottobre, poi, Joe Biden tiene una conferenza stampa congiunta con il Primo ministro australiano, Anthony Albanese, nel corso della quale sottolinea come per la maggior parte degli aderenti, la Via della Seta si è rivelata un debito e un cappio. A margine, Giorgia Meloni attende l’annuale meeting bilaterale Ue-Cina per formalizzare l’abbandono della Via della Seta. Dopo essere stato l’unico Paese del G7 ad aderire. A latere di tutto, da Gaza il conflitto si sposta sul Mar Rosso. Le grandi compagnie bloccano la navigazione. E scatta il re-routing commerciale globale.

Il ruolo di Israele nell’Imec? Cartina canta.

Devo continuare o davvero vi fate abbindolare dall’arma di distrazione di massa del Mes?

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI