Oggi avrei potuto parlarvi dell’ennesimo dato pesantemente negativo della manifattura tedesca. Oppure del fatto che la Fed di New York, dopo quattro aste repo in quattro giorni la scorsa settimana, organizzate emergenzialmente per riuscire a tamponare la fame di liquidità delle banche, abbia deciso di istituzionalizzare quell’appuntamento da 75 miliardi al giorno fino al 10 ottobre, infilandoci per questa settimana anche tre immissioni a breve termine e non solo di prestiti a un giorno. Avrei potuto parlarvi del fatto che, udite udite, anche alla Banca per i regolamenti internazionali si sono accorti che il settore corporate statunitense è il vero canarino nella miniera da cui guardarsi, soprattutto quel tripudio di azzardo morale chiamati eufemisticamente levereged loans, ovvero prestiti a insolventi poi allegramente cartolarizzati e venduti come oro al parco buoi, stante i rendimenti negativi di massa.
Avrei potuto parlarvi di molte cose che non finiscono facilmente sui giornali o nei tg, come d’altronde cerco di fare pressoché tutti i giorni. Ma oggi parliamo d’altro, oggi facciamo un breve scenario generale di cosa ci potrebbe attendere da qui al voto presidenziale Usa dell’autunno 2020. L’altra notte, in apertura di scambi della nuova settimana, l’Asia ha visto un balzo del prezzo del petrolio. Perché? Perché stando al Wall Street Journal che citava fonti ufficiali saudite, la riparazione dei danni arrecati all’impianto Aramco di Abqaiq da parte di droni iraniani (o presunti tali) potrebbe necessitare di oltre otto mesi di lavoro.
Vero? Falso? Quella vicenda, a oggi, appare ancora parecchio fumosa. Il prezzo del greggio, d’altronde, non ha offerto indicazioni chiare. È schizzato subito dopo gli attacchi, ma poi, pur restando più alto delle media degli ultimi mesi, non ha puntato verso i 100 dollari al barile, come si temeva nell’immediatezza dell’attacco. Perché questa vaghezza e poca trasparenza? E perché il mercato non la prezza, salendo alle stelle o ritracciando severamente? Perché è un giochino. Globale e pericoloso.
In contemporanea con la notizia del Wall Street Journal sui tempi extra richiesti per la manutenzione degli impianti, ecco infatti giungere due altre comunicazioni, apparentemente in netto contrasto. Primo, Amin Nasser, amministratore di Aramco, dichiarava tronfio alla Cnbc che la sua azienda è uscita “più forte che mai dagli attacchi”. Secondo, stando a indiscrezioni non smentite della Reuters, la stessa Aramco avrebbe scelto Ubs e Deutsche Bank come bookrunners per la sua Ipo: ovvero, le due banche si occuperanno di raccogliere gli ordini degli investitori istituzionali in vista del collocamento privato. Ma come, sei alle prese con impianti danneggiati e tempi più lunghi del previsto per metterli a posto e lanci proclami di forza, accelerando anche le pratiche per la quotazione, dopo averla rimandata da almeno due anni a questa parte? Strano.
E invece no. E ce lo mostra questo grafico, contenuto nello studio al riguardo compiuto da Société Générale: nella situazione attuale, i trend di mercato mostrano un cluster che in caso di ripresa rallentata o “nuovi incidenti” potrebbe non conoscere cali o picchi repentini, ma restare in area abbastanza stabile attorno a 75 dollari al barile, quella con il circoletto rosso. Ciò che, breakeven fiscale alla mano, serve come il pane ad Aramco e al deficit statale saudita.
Insomma, nessuna fretta di accelerare con la ripresa, ma nemmeno volontà di far emergere troppi particolari sui danni reali. Anzi, meno si sa, meglio è. Non vi ricorda un po’ la dinamica parossisticamente flip-flop del negoziato commerciale Usa-Cina, a sua volta sostegno dei mercati con i suoi continui su e giù che garantiscono short squeeze da acquisto sui minimi a ogni spiffero di ottimismo e tonfi per ribassisti a ogni irrigidimento delle due parti? Lo schema è quello. E vale per tutti. Dissimulare. E questo strano attacco ha fatto comodo a molti. In primis, appunto, all’Arabia Saudita e al suo ormai cronico problema con il prezzo del greggio. Ora, guardate le fotografie del servizio in esclusiva della Cnbc, la quale è entrata nell’installazione colpita per poco tempo e – debitamente guidata – ha potuto osservare i danni dal vivo. O, meglio, ciò che le autorità saudite volevano che si vedesse.
Un attacco chirurgico, roba che guerriglieri irriducibili ma grezzi come gli Houthi difficilmente potrebbero portare a termine, oltretutto utilizzando droni ad alta tecnologia in maniera pressoché impeccabile, dopo aver passato gli ultimi anni ad avere a che fare con obici di fabbricazione sovietica: tutti centri al primo colpo, manco MacGyver. E, ripeto, chirurgici. La minoranza sciita interna all’Arabia Saudita ha garantito logistica interna, un cavallo di Troia all’Iran? Chissà. Di certo, c’è che quell’attacco può essere utilizzato a livello di produzione come fa più comodo, facendo intendere rallentamenti o accelerazione dell’attività estrattiva e di lavorazione.
Finanziariamente, poi, quel picco dei prezzi proprio verso la fine del trimestre potrebbe aver salvato le terga a qualche banca d’investimento ancora troppo esposta su scommesse rialziste. Politicamente, infine, un capolavoro contro Teheran, a livello di tensione geopolitica internazionale, come dimostrato dal fallimento preventivo dell’ipotizzato incontro storico fra Rouhani e Trump a margine dell’assemblea dell’Onu. Insomma, Ryad ha qualche carta in più da giocarsi ora.
E Washington? Washington, restando in gergo di tavolo verde, ha pescato addirittura il jolly dal mazzo. Con tempismo fra il sospetto e lo straordinario, ecco che l’esercito statunitense ha reso noto nel corso del weekend di essere pronto a testare a livello pratico il nuovo sistema di difesa anti-drone Blade (Ballistic Low Altitude Drone Engagement), un sistema integrato con le Common Remotely Weapon Stations (Crows), montato su mezzi di fanteria pesante come gli M1 Abrams, gli M2 Bradley o i blindati Stryker e – guarda caso – specificatamente predisposto per reagire agli attacchi mirati di piccoli droni. E attenzione, è già pronto per i test sul campo: una volta superati, il Pentagono potrà trasformarsi nella “Amazon del warfare” e moltiplicare il Pil americano con commesse da tutto il mondo, visto il sempre crescente utilizzo dei droni non più solo da parte di eserciti ufficiali, ma anche di movimenti guerriglieri o terroristi, come dimostrato con grande chiasso mediatico proprio dall’attacco contro l’impianto saudita. Vera o falsa che sia quella matrice. Un copione che nemmeno Hollywood potrebbe inventarsi.
E attenzione, perché l’attentato o presunto tale – quantomeno nella reale portata dei danni – ha garantito anche alla Casa Bianca il dispiegamento diretto (ancorché, per ora, limitato) di truppe proprio in Arabia Saudita, il tutto mentre l’Afghanistan è tornato di colpo a bruciare, con attentati all’ordine del giorno. E sempre guarda caso, nella notte fra sabato e domenica scorsi, di colpo per le strade del Cairo è tornata la protesta di massa contro il governo di Abdel Fattah Al-Sisi, con truppe governative e polizia schierate e pronte all’intervento muscolare. Una protesta davvero stramba, poiché creata dal nulla e via social da un imprenditore egiziano dissidente e riparato all’estero.
E cosa disse nel gennaio 2016 il presidente Al-Sisi, ricordando il biennio 2012-2013 che vide al potere i Fratelli musulmani e il quinto anniversario della cosiddetta “rivoluzione egiziana”? “Abbiamo corso il rischio dell’islamizzazione forzata, poiché i Fratelli Musulmani stavano vendendo il Paese all’Iran in cambio di miliardi di dollari e petrolio”. E chiunque ci sia realmente dietro le proteste a Il Cairo di sabato notte, se dovessero degenerare, contro chi verrà puntato il dito da Al-Sisi e con lui dagli Usa e da mezzo mondo? Bravi, Teheran. Sembra un po’ il copione in atto a Hong Kong. O quello funzionato per mesi dei “gilet gialli” in Francia.
Signori, attenzione: nel silenzio generale dei cosiddetti media autorevoli, sta accadendo di tutto. E quando si cucina su troppi fuochi contemporaneamente, il rischio che qualche padella bruci sale di parecchio. Ma con Luigi Di Maio alla Farnesina, io mi sento tranquillo. Talmente tranquillo che mi mangio una merendina, prima che la tassino.