Non starò qui a ri-elencarvi le voci scorporate del Pil italiano del primo trimestre che dovrebbero tenerci distanti anni luce da ogni tentazione di festeggiamento: questo Paese, mai come oggi, è diviso in un derby cieco e tutto ideologico, una versione 2.0 e decisamente meno nobile della contrapposizione fra Guelfi e Ghibellini. Chi sta con l’esecutivo si comporta spesso da hooligan obnubilato dal tifo, chi lo contrasta da Savonarola. Non c’è più medietà, non c’è più freddezza di giudizio, raziocinio di analisi: è un brutto clima, da qualsiasi angolazione lo si guardi. Ma non è il mio lavoro quello di mettere in guardia da divisioni che possano risultare letali in una congiuntura globale che è ben lungi da aver lasciato alle spalle i momenti più duri, io devo limitarmi a mettere in fila i numeri. Incasellarli e poi farvi vedere quale, a mio avviso, sia la figura di fondo del mosaico che quelle tessere compongono: poi sta a voi farvi un’idea, in base agli strumenti qualificanti che avete. Io so poche cose, ma quelle poche rappresentano certezze incrollabili.



Questo è il tweet che martedì all’ora di cena (in Italia), Donald Trump ha sentito il bisogno di postare. Tre le particolarità che lo contraddistinguono. Era appena iniziato il board della Fed. In Venezuela, formalmente, era in atto un golpe o insurrezione militare, anche in questo caso dipende dall’inclinazione ideologica trovare una definizione calzante. Ma, soprattutto, l’uomo che lanciava un grido d’allarme in piena regola – tagliare i tassi addirittura di un punto percentuale netto e ripartire con lo stimolo monetario – è lo stesso che non più tardi di venerdì scorso cinguettava gonfio d’orgoglio rispetto al +3,2% del Pil statunitense del primo trimestre.



Ma come, in un mondo che rallenta hai l’economia che va come un treno, la disoccupazione sotto il 4%, l’inflazione all’1,6% e gli indici di Borsa ai massimi storici, Standard&Poor’s 500 in testa e chiedi alla tua Banca centrale di tagliare i tassi e riattivare la stamperia, nemmeno fossimo in pieno 2009? Qualcosa, capirete da soli anche a livello meramente intuitivo, non quadra. Perché tagliare i tassi di un punto significherebbe andare in area 1,25%-1,50%, ovvero dove gli Usa si trovavano circa un anno fa. Esattamente prima che partisse in grande stile lo shock fiscale. Lo stesso che, però, dati alla mano ha garantito profitti e benefici solo alle corporations, scordandosi bellamente il ceto medio e quella Real America che il Presidente diceva di voler rappresentare.



Non a caso, il neo-candidato alla Casa Bianca, Joe Biden, ha sottolineato questa discrasia nel suo primo comizio in Pennsylvania, dicendo che se arriverà alla presidenza l’anno prossimo, sarà proprio perché avrà convinto il Penn State. Quanto di più working class l’America sappia esprimere, non fosse altro per la tradizione mineraria e delle acciaierie dell’area di Pittsburgh. Bene, Donald Trump invece è il perfetto baluardo del new normal: conta solo la Borsa, alla faccia del sovranismo e dell’economia reale. E più gli indici salgono, più la Fed deve tagliare i tassi per farli salire ancora. La via per il suicidio, come curare il raffreddore con la cocaina.

Su una cosa, però, il presidente Usa ha ragione nel suo tweet, la candida ammissione di un uomo che almeno ha la faccia tosta di ammettere che ogni scappatoia è buona per raggiungere il risultato: la Cina sta stimolando l’economia, alla faccia delle promesse di deleverage strutturale di Xi Jinping. E per quale ammontare lo sta facendo? Ormai i dati li sapete a memoria, si parla di oltre un triliardo di dollari solo con le mosse di liquidità di gennaio e marzo. Ma siccome trovo che i grafici siano molto più efficaci della parole, ecco che Bloomberg si è decisa a prepararne uno relativamente alle mosse della Pboc da inizio anno. Questo grafico è la più colossale smentita della narrativa cinese degli ultimi anni: stanno stampando come pazzi. E nonostante questo, la Borsa cinese sta vivendo i peggiori otto giorni di contrattazione da sette mesi a questa parte.

E tutti i cosiddetti green shots, i germogli di ripresa, spuntati dopo ogni iniezione di liquidità, sono già secchi. Morti. Sono totalmente tossicodipendenti da denaro a pioggia, l’indebitamento è talmente sistemico che non appena entra liquidità viene drenata dalle scadenze. Punto. E questo, nonostante l’ultimo dato sul Pil cinese fosse tutt’altro che negativo. Anzi, formalmente doveva rassicurare il mondo. Peccato che quel dato, letto scorporando le varie voci come i mercati hanno fatto con quello Usa del primo trimestre, mostri una realtà decisamente diversa.

Possiamo inventarci tutte le balle e le politeia che vogliamo, la realtà è una sola: al mondo esistono e contano solo le Banche centrale, il concetto stesso di libero mercato non esiste più. Se le Banche centrali stampano abbiamo solo unicorni in parata, se smettono o solo rallentano, ecco che le correzioni stile Natale 2018 saltano fuori a ricordarci come certi azzardi poi si pagano cari. Stile 2008, per capirci.

E veniamo al punto davvero preoccupante e che fa il paio con il tweet disperato di Trump – (questa volta, credo frutto di un gioco delle parti con Jerome Powell, vista la delicatezza della situazione in atto, la quale dal 20 marzo scorso vede i tassi ufficiali della Fed tradare al di sopra di quelli applicati sulle riserve in eccesso, sintomo che la liquidità comincia a scarseggiare nel sistema e l’interbancario lancia segnali di allarme) – o la politica da Qe mascherato delle autorità cinesi: l’Europa si è totalmente accodata al carro dello stimolo perenne e strutturale.

Guardate questi due grafici, i quali sintetizzano alla perfezione il sincrono del momento. Il primo ci mostra come il bilancio della Bce sia ancora oggi vicino ai massimi record, visto che nell’ultima rilevazione ufficiale – quella del 26 aprile – si trova a 4,697 triliardi di euro, pari al 40,6% del Pil dell’eurozona. La Fed, ad oggi, ha uno stato patrimoniale pari al 18,7% della crescita Usa.

Perché lo faccio notare? Semplice, perché la settimana conclusasi pochi giorni fa è stata quella del grande deleverage, del massimo di sgonfiamento del bilancio della Bce, il quale infatti è calato di 10,3 miliardi in base alle redemptions che hanno superato il tasso di reinvestimento. Capito perché il nostro spread resta fermo come un semaforo, qualsiasi cosa accada? Perché anche al massimo dalla modalità deleverage, la Bce ha ammassato talmente tanti assets che la mossa di Mario Draghi di ampliare la platea del reinvestimento garantisce uno scudo che ha la stessa efficacia del Qe in senso stretto, ovvero degli acquisti diretti pro-quota.

Siamo ancora in Qe, inutile che ci raccontiamo balle. E non solo noi. Sapete quale è stato l’indice europeo migliore lunedì scorso? L’Ibex di Madrid, nonostante le urne abbiano consegnato ai mercati un Paese ancora una volta ingovernabile! Ed eccoci al secondo grafico, il quale ci mostra come grazie all’operatività della Bce, oggi l’eurozona sia identica nelle dinamiche di mercato a Usa e Cina: le linee verdi e ocra rappresentano, rispettivamente, i nuovi ordinativi manifatturieri europei e quelli industriali in senso più ampio e composito, mentre la linea nera rappresenta lo Stoxx 600, l’indice benchmark dell’eurozona, schizzato in alto proprio a ridosso di inizio anno, quando la Fed ha messo in pausa forzata il suo processo di normalizzazione del costo del denaro e la Pboc si preparava all’iniezione monstre di liquidità da 850 miliardi di dollari. Non vi ricorda qualcosa, quella dinamica?

Attenzione a leggere bene i dati del Pil, perché il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Siamo tutti sulla stessa barca ora. E la rotta non è affatto da crociera ai Caraibi, ricorda piuttosto quella Southampton-New York del 1912.