Il combinato congiunto degli interventi di Giuseppe Conte e Ursula Von der Leyen parlano una sola lingua per il nostro Paese: game over. Di fatto, un preavviso di default. Nulla è stato lasciato al caso: le parole della numero uno della Commissione Ue, infatti, erano contenute in un’intervista. Si poteva attendere la tarda sera per farle uscire sulle agenzie sotto forma di anticipazione: sono arrivate invece come una doccia fredda, mentre un imbarazzato e visibilmente preoccupato primo ministro annunciava al Paese lo sblocco di fondi per l’emergenza alimentare.



Un impatto combinato devastante: l’Europa stronca le tue richieste, definendole “slogan” proprio nel giorno in cui i giornali facevano la conta dei Paesi “ribelli” pronti a schierarsi con Roma e negli stessi istanti il tuo governo è costretto ad ammettere la necessità di risorse extra da girare ai Comuni per sedare sul nascere potenziali rivolte per il pane.



Sembra la sceneggiatura di un film. È stata la realtà. Qualcuno in Europa sta giocando sporco? Sicuramente. L’Ue è un club in cui ognuno tutela e preserva i suoi interessi, millantando obiettivi comuni. Tutti, però, alla fine ne traggono un qualche beneficio, in primis gli amichetti di Visegrád di chi già è tornato a sventolare la bandiera impolverata dell’Italexit e si erge a Silvio Pellico in sedicesimi. Chi più, chi meno, mangiano tutti. È la logica de La fattoria degli animali, prendere o lasciare. Tertium non datur, soprattutto gli infantilismi su presunte logiche da “uno vale uno”. La Germania non vale la Grecia, la Francia non vale il Portogallo.



Occorre però avere il coraggio di dire le cose come stanno: Giuseppe Conte, nella migliore delle ipotesi, si è suicidato politicamente. Trascinando con sé il Paese, ancorché il destino fosse segnato già dal 2011 e da allora rimandato unicamente in ossequio alla falsa ripresa generale garantita dal Whatever it takes, dal Qe e da Mario Draghi, l’italiano che fece saltare il banco e che oggi tutti invocano come il “cavaliere bianco” che salva dal precipizio. Guardate questa immagine:

l’ho già pubblicata giovedì ma vale la pena ripubblicarla: fa parte del documento con cui la Bce ha presentato, il 24 marzo, l’ultima versione del Qe, il cosiddetto PEPP, focalizzata appunto sulla risposta alla pandemia da coronavirus.

Il messaggio era chiaro: via il limite della capital key rispetto agli acquisti pro quota per Stato emittente, il 33% va in cantina per tutta questa fase emergenziale. Quindi, almeno per tutto il 2020. Per l’Italia, un bel sospiro di sollievo rispetto ai costi di finanziamento e servizio del debito, visto il controvalore di Btp (e non solo, stante il contestuale abbassamento delle maturazioni accettate come collaterale) che vedrà assorbito in automatico dal backstop dell’Eurotower.

Di più, poco prima era stato sospeso senza colpo ferire anche il Patto di stabilità; altra aria che entrava a garantire ossigeno. E infine, atto di fondamentale importanza, il premier in pectore, Mario Draghi, dettava la linea in un’intervista al Financial Times: gli Stati – e non l’Ue mutualmente, badate bene – si indebitino, poiché in questo momento è fondamentale per evitare disastri non risolvibili a emergenza finita.

Chiunque, quantomeno se chiamato a ricoprire il ruolo di premier, avrebbe capito il messaggio: sforate pure, Bce e Commissione non hanno nulla da ridire. Anche perché chi gestirà la fase post-emergenziale è uomo di cui ci fidiamo (e contro cui è meglio non mettersi, Wolfgang Schäuble ne sa qualcosa). E che, ovviamente, ribalterà questo Paese e le sue incrostazioni stataliste-consociative-assistenzialiste come un calzino, ma che non intende certo passare alla storia come curatore fallimentare o spalatore di macerie.

Ovviamente, il prezzo a questa apertura era il mandare in cantina l’ipotesi di mutualizzazione del debito attraverso i cosiddetti “coronabonds”. E invece, Giuseppe Conte al Consiglio europeo ha ribaltato il tavolo quando ancora le trattative erano in corso, fidandosi dell’appoggio di una Spagna politicamente ed economicamente inconsistente come neve al sole e di una Francia che nel Dna non ha certo l’approccio solidaristico verso il nostro Paese. E che, soprattutto, ha un problema molto, molto serio con le sue banche e il loro fondi allegri.

Chi pensate che abbia scaricato debito italiano con il badile all’inizio della scorsa settimana, spedendo lo spread oltre 230 punti base e rendendo plateale – quindi, mediaticamente spendibile ed eclatante – l’intervento salva-Italia della stessa Bce con i suoi acquisti, tanto da riabilitare Christine Lagarde dopo la gaffe sullo spread? Chi ha in pancia 285 miliardi di Btp e una gran mole di problemi con leveraged loans e autocallables nei portfolio di investimento?

Tutto inutile. Abbiamo voluto giocare la carta dell’orgoglio italico, dando all’Europa i dieci giorni come alle colf quando le si licenzia. Detto fatto, l’Ue ha deciso di rispondere subito e in maniera netta, devastante. E con gli interessi. Non si spiegano altrimenti le parole di Ursula Von der Leyen e il loro timing chirurgicamente assassino. O Giuseppe Conte è caduto nel tranello oppure ha voluto giocare la carta disperata e populista dell’ego ferito, vendendosi come martire italiano contro il Leviatano europeo nella speranza di salvarsi politicamente, dopo il de profundis alla sua carriera a Palazzo Chigi pubblicato in prima pagina dal Financial Times solo 24 ore prima.

Comunque sia andata, ha sbagliato. O, magari, mi sbaglio io e il suo è stato un capolavoro di diplomazia. Me lo auguro e sono pronto a un pubblico mea culpa. Nel frattempo, penso che la priorità ora sia decidere se sia più conveniente tenere aperta o chiusa la Borsa domani mattina: l’annuncio di un caso di positività al coronavirus a Palazzo Mezzanotte potrebbe essere un’idea da non scartare a priori. Quantomeno, al netto dell’implicito messaggio da bandiera bianca insito in una mossa simile, se si ritenesse più conveniente salvare la faccia e un po’ di capitalizzazione. Visto che la sostanza, purtroppo, è ormai nota a tutti.

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