Com’è possibile essere passati dalla ripresa record alla quarta ondata in meno di due mesi e nonostante vaccinazioni e green pass, quantomeno nel nostro Paese? Davvero dobbiamo dare colpa all’Est Europa? Davvero tutto dipende dal cluster triestino di non vaccinati in manifestazione permanente e senza distanziamento e mascherina? Forse qualche domanda ora è davvero arrivato il momento di porsela. Perché quando è il Corriere della Sera ad aprire la sua prima pagina con la conferma della quarta tornata di allarme pandemico, allora si entra di diritto nel novero della narrativa ufficiale.
Non se se ve ne siete accorti, poi: dopo un periodo di sana disintossicazione, quasi non servissero più dopo mesi e mesi di sfruttamento ansiogeno di stampo toyotista, sono tornati nei talk-show i televirologi in camice e allarmismo d’ordinanza. Un film già visto. Il quale, di fatto, ha soltanto due spiegazioni. Primo, occorre prendere atto che di questo virus non ha capito niente nessuno nemmeno dopo due anni e ci tocca accettare un futuro a colpi di richiami vaccinali annuali o semestrali e pillole per via orale. Insomma, endemia. La case farmaceutiche ringraziano. Secondo, si sta drammatizzando un trend che con l’arrivo dei primi freddi – influenza stagionale unita a una vita sociale al chiuso e non più all’aperto, oltre alla fine per molti dello smart work – era ampiamente preventivabile e che nulla ha a che fare con i non vaccinati in versione untore da redimere. O marginalizzare, in attesa di abbattimento.
Quanto sta avvenendo con il distretto termale dei Colli Euganei e le sue strutture alberghiere parla chiaro: per le autorità siamo al focolaio stile Wuhan, per i gestori si stanno tramutando 30 casi registrati su oltre 100 alberghi con il tutto esaurito in un allarme ingiustificato. Chi ha ragione? Chi ha torto? Non sono un medico, né un membro del Cts, quindi evito di addentrarmi. Cerco unicamente di fotografare la realtà. La quale, oggi, ci dice che in Cina le province colpite da nuovi focolai sono 20 dalle 13 di soli dieci giorni fa e i nuovi casi di contagio giornalieri sono saliti a circa 800 dai 40 delle scorsa settimana. Questo nonostante le restrizioni imposte immediatamente dal regime, fra cui la cancellazione della maratona di Pechino e la chiusura di Disneyworld a Shanghai, con tanto di lockdown e tampone per tutti i 33.000 visitatori. Quindi, la questione sarebbe un po’ più ampia del cluster dell’Est europeo che vogliono venderci come narrativa, puntando il dito contro la Bulgaria con il suo sconfortante 26% di popolazione vaccinata.
Guarda caso, proprio un altro grande player del real estate cinese, Kaisa, ieri ha sospeso il trading di tutte le sue unità quotate a Hong Kong dopo un mancato pagamento di coupon su un’obbligazione in scadenza. Pur avendo evitato la “Lehman cinese” tout court con il caso Evergrande, Pechino deve comunque fare i conti con una bolla di debito legata all’immobiliare che sempre ieri ha spedito il rendimento medio dei bond on-shore oltre al 21%, record assoluto che ha costretto la Pboc a una nuova iniezione di liquidità da oltre 100 miliardi di yuan (16 miliardi di dollari) nel sistema attraverso l’ennesima open market operation.
La situazione è seria, le pressioni senza precedenti su un comparto cui fa riferimento oltre il 60% degli investimenti di cittadini cinesi sotto varie forme, dai titoli azionari ai bond ai piani pensionistici e di gestione del patrimonio. Insomma, da quelle parti occorre un po’ di emergenza per lavorare in pace. Tanto più che sta per iniziare il Sesto Plenum del Partito, quindi tutto deve rimandare all’esterno un’apparenza di normalità. In compenso, l’America pare tornata immune. Dal Covid, certo. Ma non dai sickouts, ovvero le assenze sul lavoro per malattia. Che non stanno più colpendo soltanto le linee aeree – con United costretta a cancellare oltre 1.000 voli interni nel weekend di Halloween -, ma anche i servizi federali come vigili del fuoco e polizia, infermieri e medici. I più sindacalizzati. Ma anche i più essenziali. Quelli verso cui pare indirizzata la nuova crociata della Casa Bianca per l’obbligo vaccinale immediato, cui hanno però risposto in maniera indiretta i lavoratori dei porti commerciali della West Coast, qualcosa come 15.000 persone che permettono alle merci di tutto il mondo di raggiungere l’enorme supermercato chiamato America. E che ora minacciano di incrociare le braccia in nome della scadenza del loro contratto attesa per il 1° luglio 2022.
Alla guida della protesta il potentissimo sindacato International Longshore and Warehouse Union, capace nel 2014 si semi-paralizzare l’hub di Long Beach per ottenere le condizioni richieste: oggi quell’accordo sta andando a scadenza e la crisi sulla supply chain – a poco più di un mese dal Natale e con il Black Friday già compromesso, in un Paese dove i consumi pesano ancora per il 70% del Pil – sta offrendo una sponda straordinaria per una trattativa con il coltello ben saldo dalla parte del manico. Se si blocca il cosiddetto West Coast Corridor, da Los Angeles fino a Oakland, si blocca l’America, visto che in quei terminal arrivano le merci dalla Cina. Insomma, un disastro potenziale. Scommettiamo che, fra poco, la quarta ondata arriverà via aerea anche negli Usa?
E il motivo ce lo mostrano questi tre grafici. Il primo esemplifica come il rallentamento della crescita statunitense abbia appena spinto la produttività del lavoro Usa al minimo dal 1981, mentre il secondo ci contestualizza il perché i sindacati stiano contestualmente forzando la mano su nuovi accordi. Come dicevamo nell’articolo di ieri, il combinato di liquidità della Fed e sostegni occupazionali e reddituali del Tesoro ha mandato fuori giri le dinamiche salariali negli Stati Uniti, i cui imprenditori – soprattutto medi e piccoli – sono alla disperata ricerca di manodopera. E se nel mese di settembre, il 42% delle Pmi statunitensi ha confermato di aver alzato il livello delle proprie retribuzioni, l’ultimo sondaggio dell’associazione di categoria conferma con il 32% del totale ha pianificato aumenti nei prossimi tre mesi.
Infine, il terzo grafico mostra come il costo della benzina alla pompa negli Usa stia avvicinandosi a larghe falcate alla media di 3,5 dollari al gallone, livello registrato ben poche volte negli ultimi venti anni. Non a caso, Joe Biden ha trasformato in priorità assoluta uno sblocco delle trattative in sede Opec + per ottenere un aumento della produzione che schiacci al ribasso – e in fretta – i prezzi.
Signori, si chiama inflazione, la stessa che i soloni dell’economia hanno negato ontologicamente fino all’altro giorno. La stessa che le Banche centrali definiscono sempre più timidamente come transitoria. La stessa generata da quel crimine contro il buonsenso finanziario chiamato Qe perenne o helicopter money o Mmt o reddito universale. Chiamatelo come volete, resta un fatto: il debito è sempre male e non esistono pasti gratis. Altrimenti, accettate il costo di questo delirio monetarista: l’endemia. Perché senza un allarme globale perenne, salta tutto. Quindi, accettiamo il virus come appendice della politica delle Banche centrali. La più efficace, fra l’altro.
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