Lo zero, oltre il quattro, e il default. Questi sono i ritorni in conto capitale per tutti coloro che – oggi – ricercano un valore aggiunto sulla componente obbligazionaria. L’alternativa a questa infruttifera e poco allettante “opportunità” c’è e si chiama mercato azionario, ma, come vedremo, è plausibile ipotizzare un ridimensionamento dello stesso. Andiamo con ordine partendo dal primo sopraindicato “zero”.



Ormai non fa, e pertanto non è, più notizia quella dell’attuale livello raggiunto dalla curva dei rendimenti sui molti titoli di stato quotati. Osservando i vicini confini del Vecchio continente, gran parte dei Paesi vedono la propria tesoreria nazionale riconoscere un premio negativo ai loro cosiddetti creditori (obbligazionisti titolari di investimento con una scadenza entro i cinque anni). Se come si può vedere lo “zero” non è sufficiente, allora basta scegliere qualcosa di meglio: magari “oltre il quattro”. Infatti, estendendo l’osservazione al più lontano territorio statunitense (con le sue zone limitrofe), il guadagno che si può spuntare è di poco inferiore ai cinque punti percentuali (4,70%), ma – ovviamente – con il classico dei più seri e impronosticabili “pero'”. Stiamo infatti parlando dell’attuale rendimento che il comparto obbligazionario High Yield è in grado di offrire sul mercato delle obbligazioni societarie con rating inferiore a investment grade denominate in dollari Usa emesse nel mercato nazionale statunitense (rif. BofA Merrill Lynch US High Yield denominato in dollari Usa).



È poco, troppo poco, può bastare? Senza troppi giri di parole – dal nostro punto di vista – è oggettivamente impensabile: un’opzione difficilmente percorribile. Questa considerazione deriva essenzialmente dal fatto che, i cosiddetti titoli High Yield, sono sottostanti che si caratterizzano certamente per un elevato rendimento, ma, allo stesso tempo, per l’ovvio elevato rischio. Tra questi, come definito sul sito di Borsa Italiana, rientrano le cosiddette «obbligazioni spazzatura, denominate anche junk bond» ovvero «titoli obbligazionari emessi da società ad alto rischio di insolvenza e che incorporano un elevato rendimento atteso. Hanno un rating inferiore a Baa (per Moody’s) oppure BBB (per Standard and Poor’s) e vengono classificate come “speculative grade bond” (obbligazioni speculative)».



Escludendo particolari tecnicismi su questa tipologia di strumenti finanziari basta ricordare quello che nel novembre 2018 il documento di Banca d’Italia “Rapporto sulla stabilità finanziaria 2/2018” riportava i materia di “Criteri per l’idoneità dei titoli utilizzati nelle operazioni di rifinanziamento presso l’Eurosistema”: «Il quadro normativo dell’Eurosistema per l’attuazione della politica monetaria prevede l’applicazione del migliore tra i rating rilasciati dalle quattro principali agenzie ai fini della valutazione delle garanzie (first best rule). Solo nel caso estremo in cui il rating di tutte e quattro le agenzie scendesse al di sotto del livello investment grade le banche non potrebbero più utilizzare titoli di Stato italiani a garanzia delle operazioni di rifinanziamento e cesserebbero gli acquisti di tali titoli da parte dell’Eurosistema nell’ambito del programma ampliato di acquisto di attività finanziarie (Expanded Asset Purchase Programme, APP)». Ovviamente erano tempi diversi e condizioni strutturali diverse, ma la sostanza (sui titoli oggetto di analisi) non cambia: né ieri, né oggi.

Ed ecco pertanto giunti al nostro terzo “valore” indicato: il “default”. Oggi, per quanto abbiamo visto, sulla base delle attuali quotazioni, il rendimento su titoli High Yield è verosimilmente inferiore al cinque per cento con un rischio di portafoglio pari alla mancanza di rimborso del capitale. Ne vale la pena? Lasciamo a chi legge la valutazione.

E ora arriviamo alla possibile alternativa rappresentata dal mercato azionario. Confrontando il consueto benchmark internazionale MSCI World USD con l’andamento del BofA Merrill Lynch US High Yield – Effective Yield USD, appare evidente la correlazione inversa tra i due sottostanti: a una crescita dell’equity corrisponde un deprezzamento dello yield e viceversa. Un dato significativo che si deve trarre dall’analisi grafica è quello concernente gli attuali valori raggiunti da quest’ultimo: come abbiamo visto siamo a quota 4,70% (rispetto a una media annuale del 6,2571%) ovvero il valore minimo dal 1997.

Osservando più nel dettaglio le recenti dinamiche si può riscontrare un ulteriore elemento: ogni qualvolta il rendimento abbia violato (al ribasso) la soglia dei cinque punti percentuali, l’opposto mercato azionario ha successivamente ripiegato anche in maniera molto evidente (vedasi i giorni primi della crisi di febbraio 2020). Se l’insieme di questi rilievi produrranno una loro ricorrenza nel corso dei prossimi mesi non è dato sapere, ma, senza ombra di dubbio, quello che si può (e si deve) fare è semplice: porre particolare attenzione a partire dal cosiddetto breve termine.

I numeri sono questi e vogliamo nuovamente ribadirli: zero, oltre il quattro, e il default. Escludendo l’ultimo si esclude direttamente anche il secondo. Rimane lo zero che, preso atto delle prospettive degli altri, potrebbe essere ritenuto soddisfacente. A voi la decisione finale.