La saggezza popolare in voga nel mondo sportivo dice che il vero campione lo si vede, paradossalmente, da come sa gestire i trionfi, più che le sconfitte. Chi festeggia sguaiatamente, sfottendo e deridendo l’avversario sconfitto, umiliandolo, semplicemente non sa vincere. E quindi non sarà mai un campione, anche se il risultato del campo dice il contrario. Bene, la reazione del Governo italiano – quantomeno la componente Pd e di Italia Viva – alla farsa andata in onda a Bruxelles mercoledì rientra a pieno in questa categoria di decodifica psico-socio-politica: si sono attaccati a una presa per i fondelli, tramutandola nella vittoria del secolo. Quando sento parlare di alba di una nuova Europa, di D-day del XXI secolo, di Big Bang, mi viene da ridire. E da piangere, contemporaneamente. Per cosa, di grazia? Per il fatto che, alla fine, i cosiddetti Paesi “frugali”, gente il cui Pil messo insieme non fa quello del Veneto, ha imposto l’agenda relativa alla percentuale di prestiti da rimborsare, rispetto alle richieste iniziali di fondo perduto tout court? Avete tolto lo champagne dal frigorifero per questo o vi siete dimenticati i toni da Guerra dei mondi minacciati fino alla scorsa settimana da Giuseppe Conte, ivi compreso il veto al Budget Ue? Pensate davvero, come vi ho detto fin dall’inizio, che la mossa di Austria e Olanda non fosse concordata con la Germania per ottenere proprio questo risultato, giocando al poliziotto cattivo e quello buono e “costringendo” così la Commissione a un compromesso?



Guardate i numeri. Certo, 172 miliardi a disposizione del nostro Paese fanno impressione a livello di numero assoluto, ci sembrano tutti i soldi del mondo. Sapete quanto spendiamo all’anno solo di interessi sul debito? Nel 2019, 64 miliardi di euro (3,6% del Pil). Un terzo circa degli aiuti europei che festeggiamo come fossero manzoniana pioggia purificatrice. E attenzione, perché nell’ultimo Def pubblicato ancora sotto la guida di Giovanni Tria, quella cifra era già prevista in crescita a quota 74 miliardi solo nel 2022 (3,9% del Pil). E senza Covid-19 a schiantare le dinamiche di crescita, all’epoca fattorizzate a un tasso più o meno dello 0% o +0,2% e oggi in area di previsione di circa il -9,5% (ogni punto di Pil equivale a 16 miliardi di euro, tanto per mettere la questione in prospettiva). Provate poi a scorporarli quei miliardi e vedrete che, di fatto, siamo quasi a un 50% e 50% fra aiuti e prestiti.



Certo, questi ultimi hanno scadenza lunghissima, visto che andranno rimborsati fra il 2028 e il 2058, ma restano comunque in carico, fanno stock, non sono “a babbo morto” come il nostro Governo avrebbe voluto, minacciando sfracelli che ovviamente sapeva di non poter scatenare. Di fatto, poi, come vi ho già detto ieri, la parte eccedente rispetto ai 500 miliardi del piano franco-tedesco originario faranno capo a una partita di giro con la Bce, la quale opererà da prestatore di ultima istanza rispetto ai bond emessi per finanziare la parte principale del Fondo. Basta attendere il 4 giugno, per avere la conferma: se, come pare, verrà aumentato il limite massimo del 10% per le detenzioni di debito sovranazionale, il Re sarà nudo. Perché la Bce non è un’entità marziana o venusiana, siamo noi.



Come mai, altrimenti, alle 13:30 di ieri mattina  il nostro spread era già risalito a 194 punti base? Dopo l’ok al Mes, Cipro ha visto il suo decennale perdere 60 punti base in un giorno rispetto al pari durata tedesco. Il nostro ha fatto poco più di un plissé, anzi in mattinata era arrivato al massimo intraday di 198 punti dai 191 dell’apertura: sintomo che, prima di andare a pranzo, una manina a Francoforte ha fatto un po’ di shopping. E quel livello non è a fronte di un piano limitato di salvataggio come il Mes, bensì di fronte a quello che il Governo ci spaccia addirittura come il D-day della nuova Europa. E con la Bce che sta comprando con il badile.

Cosa c’è che non torna? Il problema reale è che lo status attuale del nostro spread è paradossalmente più preoccupante di quello raggiunto un mese e mezzo fa, in piena bagarre da Eurogruppo. All’epoca, infatti, tutto era ancora formalmente da decidere in sede Ue e, soprattutto, l’Eurotower aveva dispiegato l’artiglieria pesante solo da un paio di settimane. Qui siamo già a un terzo dell’ammontare del Pepp già messo in campo (28%), siamo stati di fronte a una proposta franco-tedesca formalmente tutt’altro che punitiva verso Italia e Spagna per oltre dieci giorni, ora possiamo contare sul Big Bang di tutte le manovre europee di sostegno e, dulcis in fundo, ci ritroviamo con il lockdown da pandemia pressoché terminato, quantomeno nei suoi aspetti più paralizzanti per società ed economie. Eppure, il nostro spread resta lì. Nonostante gli acquisti monstre della Bce, il Covid che fa meno paura, i tappi di champagne fatti volare per il collocamento record del Btp Italia e il Decreto rilancio tramutatosi in realtà sulla Gazzetta Ufficiale.

Signori, questo significa che siamo molto prossimi al game over. E che, soprattutto, quella fase terminale del gioco pare godere del medesimo trattamento di compressione artificiale di cui beneficia lo spread, grazie a gente come la Isabel Schnabel e i soloni dell’azzardo morale da annullamento del concetto di rischio: senza Bce, l’insostenibilità dei conti si sarebbe già palesata e sarebbe già stata prezzata dai mercati, invece che rimanere nascosta nelle pieghe di una riapertura del Paese in fretta e furia su “consiglio” interessato di Inps e Inail. Non prendiamoci in giro, per favore.

Certo, parlare di assistenti civici e reagenti che mancano garantisce ascolti televisivi ai talk e letture degli articoli sui siti di news, ma configura anche una clamorosa cortina fumogena rispetto a quanto sta accadendo nel Paese. Ovvero, quella che già in un articolo passato ho definito la lenta e dolente Spoon River delle saracinesche chiuse. Soldi che non arrivano, se non – furbescamente – i 600 euro promessi agli autonomi: argent de poche, infilato nelle pieghe del Decreto e finanziato magari ex post proprio con fondi europei, al fine di tacitare i mugugni più rumorosi e minacciosi. Quelli, ad esempio, di chi non ha visto un euro da marzo. Ora il primo saldo è ormai arrivato al 100%, aprile poi verrà coperto in fretta, millantando panacee europee: l’importante era “scavallare” il nodo reale, quello della cassa integrazione in deroga. Prima scaricando politicamente le colpe sulle Regioni, i monsieur Malaussène preferiti da questo Stato centralista fino al midollo, e poi riaprendo in ordine sparso il Paese, in modo e nella speranza che l’economia in qualche modo rimettesse in moto le dinamiche salariali e reddituali. La Cig in deroga, a quel punto, arriverà anch’esssa a babbo morto, come parte del Recovery Fund. Ovvero, mai. Ma, almeno, adesso si evitano cortei di protesta ogni giorno e si cerca di togliere munizioni all’opposizione.

Ecco a che punto siano, cari lettori. E pensate che saranno i 172 miliardi del Recovery Fund a cambiare le cose? Oppure si tradurranno soltanto negli ennesimi asciugamani di lusso con cui tenteremo di tappare una falla degna delle cascate del Niagara, in attesa della prossima crisi ciclico-strutturale, magari quando la Bce dovrà giocoforza darsi una calmata con gli acquisti?

Vi avevo promesso un grafico molto esplicativo per oggi: eccolo qui, compara la nostra ratio debito/Pil con la quota dello stesso detenuto da Bankitalia su mandato Bce in seno al programma di acquisto generale di bond sovrani (Pspp) e dei suoi vari addentellati e fantasiosi acronimi.

Pensate che da una dinamica di dipendenza totale e assoluta dall’Europa di questo genere si esca con 172 miliardi, a fronte oltretutto di un Pil che quest’anno viaggerà in area negativa a doppia cifra per il fall-out economico della pandemia? Siamo seri, qui stiamo parlando di centinaia e centinaia di miliardi strutturali di servizio del debito. Di una dinamica che, giocoforza, quest’anno passerà dal 132% a oltre il 150%, con forte tendenza ad andare fuori controllo, come quasi sempre accade quando si varcano certi Rubiconi (vedi il Giappone, totalmente incapace di ridurre il suo stock e infatti costretto al Qe strutturale solo per restare in piedi, fra una recessione e l’altra).

Attenzione, poi, a sottovalutare la scadenza del 5 agosto, entro la quale la Corte di Karlsruhe attende una risposta formale dalla Bce ai suoi rilievi di liceità relativi proprio ai vari cicli di Qe e alla proporzionalità delle misure messe in campo rispetto al mandato statutario. Se come riportato dalla Reuters martedì (non smentita), a Francoforte i tecnici sarebbero già al lavoro per approntare contingency plans in grado di garantire l’operativa del Pspp e di tutti gli altri programmi anche in assenza della Bundesbank, qualcosa di serio all’orizzonte c’è. Fosse anche solo una strategia o un gioco delle parti, come immagino sia. Perché non si arriva a palesare certe dinamiche pubblicamente, se la posta in palio non è decisamente alta.

L’Ue, piaccia o meno, oggi è più che mai a guida tedesca, alla faccia dei sovranisti festeggianti dopo le Europee dello scorso anno. E la Germania vuole dare soldi all’Italia subito solo per evitare il fallimento del comparto produttivo del Nord, quello che garantisce componentistica e macchinari all’industria tedesca. Poi, riforme strutturali, abbattimento dello stock di debito in primis. Quella è la linea Maginot, oltre la quale Berlino non andrà. E, conti alla mano, chi tiene il coltello dalla parte del manico è noto e palese, come mostrato dal grafico.

Non è colpa dei tedeschi se siamo indebitati a livello pubblico come uno Stato centrafricano: le vie sono due, d’altronde, se si vuole restare in Europa. Utilizzo del risparmio privato, via prelievi una tantum, controlli di capitale e patrimoniale. Oppure condizionalità riformista all’erogazione degli aiuti. Una Troika sotto copertura che risponde al nome di Mario Draghi e al suo Governo prettamente tecnico. Tertium non datur, alla faccia del Btp Italia. Perché provate pure a emettere un bond dopo che la Bce avrà smesso di garantire il backstop (anche solo rimettendo la capital key italiana al 17% statutario, senza per forza smettere di colpo di comprare) e vedrete quanto vi costerà l’autarchia. Per referenze, chiedere in questi giorni ai cittadini argentini. E, soprattutto, ai creditori di Buenos Aires.

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