Ripresa. locomotiva Italia. L’economia cresce del 6,3%, più degli altri Paesi avanzati. La spinta dall’industria e dall’aumento dei consumi. Debole l’occupazione, tra contratti a termine a salari bassi. Ma virus e inflazione ora minacciano la risalita. Ciò che avete letto erano titolo e catenaccio tratti dalla prima pagina de La Repubblica di ieri. Tutto vero, dati Ocse freschi freschi. Il problema è: cosa c’è da festeggiare? Al netto della scoperta dell’acqua dell’inflazione, la cui presunta transitorietà è stata ufficialmente archiviata persino da Jerome Powell in persona (avvisate quindi gli ultimi giapponesi nella foresta), cosa ci dice il più draghiano dei quotidiani italiani? Che viviamo in un Paese di precariato e contratti da fame, dove contemporaneamente però ci si lamenta per la fuga di massa dei giovani verso Paesi a un’ora di aereo, dove il lavoro ha ancora una dignità e una retribuzione che ti permette di vivere. E non sopravvivere a stento. E questo, nonostante i 209 miliardi del Recovery Fund, il Pnrr e Re Mida a palazzo Chigi.
Vediamo le note positive, ora: rimbalziamo meglio degli altri, Spagna in testa. Il motivo? Semplice, fra tutti i gatti morti che cadono dal quarto piano con destinazione tendone sottostante, siamo i più pesanti – metafora poco elegante del too big to fail -, quindi per inerzia andiamo un po’ più su. Il problema? Quanto ci spiaccicheremo al suolo una volta tornati con i piedi per terra. E lo dice la stessa Repubblica, quando sottolinea come quel 6,3% sia ascrivibile soprattutto a industria e consumi.
Bene, a livello di prospettive industriali vi rimando all’intervista ad Angelo Carlini, Presidente di Assistal, pubblicata ieri su queste pagine. Riguardo i consumi, attenzione attenzione: oggi il favoloso governo dei Migliori rischia di veder andare in fumo tutto il suo lavoro a causa del combinato congiunto di inflazione e virus. Condito da un po’ di restrizioni che, certamente, non giovano agli scontrini (per chi ha la decenza di emetterli, ovviamente). Et voilà, gli alibi sono pronti. Come vi dico da mesi, ormai. L’aver snobbato il rischio di inflazione fino a oggi, signori miei, è una colpa. Grave. Perché non stiamo parlando dei soliti economisti da talk show un tanto al chilo, qui parliamo di ministri e presidenti del Consiglio. Quest’ultimo, poi, ex banchiere. Prima privato ai massimi livelli, poi di Stato a capo di Bankitalia e poi addirittura europeo, deus ex machina della Bce e dell’euro.
Certo, a sua parziale discolpa c’è il fatto che se l’Europa passa il suo tempo a cercare casus belli contro la Russia, appare complicato sperare in un flusso costante e a buon mercato di gas. E infatti, i futures del Dutch ad Amsterdam continuano a inanellare aumenti, in attesa di esplodere del tutto visto le pressioni Usa per ottenere l’incidente controllato nel Donbass. Quei prezzi, bimestralmente, si trasferiscono diretti sulla filiera. Tradotto, le nostre bollette. Le stesse che ora il Governo cercherà emergenzialmente di rendere più leggere. E qui si entra invece nel novero delle responsabilità dirette della politica. Perché quando il tuo approvvigionamento di gas dipende dall’estero all’80%, devi avere la forza e il buon senso di mandare a quel Paese sia Greta che i suoi accoliti nel Governo, ridimensionare la transizione ecologica a business del momento quale è e operare sull’esistente in modo tale da non ritrovarti in queste situazioni, oltretutto con l’inverno vero che ora bussa alle porte.
Utilizzate questo link per capire quanto davvero la situazione si fa grave: perché il problema non sono tanto i futures su gennaio in area 100 euro per megawatt/ora a dover spaventare, bensì quelli con opzione marzo ancora in area 88 euro. Vuol dire prezzi alle stelle per tutto l’inverno, quasi fino a inizio primavera. Solo sul settle di aprile si scende ma comunque restando relativamente molto alti: alla chiusura di mercoledì quel contratto a praticamente cinque mesi era a 44 euro per megawatt/ora, ai primi scambi di ieri mattina era già salito a 51 euro. Parliamo di aprile.
Il motivo? Lo mostrano questi grafici: se da un lato le scorte europee continuano a essere ben al di sotto della media del periodo, stante le geniali attitudini maccartiste di Bruxelles, il problema sta nelle previsioni pubblicate da Bloomberg rispetto alle temperature medie attese in Europa nei prossimi mesi. Nell’Europa nord-occidentale le prossime tre settimane saranno tra le più fredde degli ultimi 30 anni, quindi con un’ulteriore driver dei prezzi a causa dei consumi in aumento.
Cosa dite, la politica non poteva occuparsi prima di questa inezia chiamata dipendenza e autonomia energetica, invece di riempirsi unicamente la bocca con continui rimandi a una ripresa record che si basa – almeno nell’industria – proprio su consumi elettrici? E i media, invece di relazionarci anche sul menu della colazione del ministro Cingolani durante il suo soggiorno a Glasgow per la COP26, non avrebbero potuto lanciare l’allarme in tempo? Ah già, erano troppo occupati a fare da megafono alle tesi della transitorietà, tanto per difendere di sponda il Pepp e la sua prosecuzione sine die a difesa artificiale dello spread. Il quale, cari lettori, intraday mercoledì a fatto una capatina a quota 140 punti, replicando ieri prima che palazzo Koch schiacciasse il tasto buy: il governo del Re Mida non doveva portarci stabilmente in doppia cifra rispetto al Bund? E ulteriore allarme, oggi abbiamo a che fare con la Germania meno Paese rifugio degli ultimi trenta anni, tra incertezza politica e crisi sanitaria. Eppure, nonostante questo e con la Bce ancora operativa in deroga alla capital key, il nostro differenziale sale. Forse perché il +6,3% non fattorizza al suo interno uno stock di debito che continua a salire?
Forse sì. Non a caso, l’Ue ha già drizzato le antenne. E detto chiaro e tondo a palazzo Chigi che nella Manovra c’è poco e niente in tal senso e in direzione di una riduzione strutturale. Certo, tutti stanno ragionando come se il Patto di stabilità fosse già riformato in senso lassista. Tanto, finché c’è Covid, c’è deroga. E se così non fosse? E il tempo non fosse poi così tanto? Attenzione, perché la situazione – come dicono gli anglosassoni – is escalating quickly. La Fed ha appunto archiviato ufficialmente la panzana della transitorietà, inviando uno scossone sui mercati e una chiara indicazione di prezzatura sui tassi. Non avverrà, ovviamente. Altrimenti, salta il sistema. Però ora ci stiamo avvicinando al momento in cui occorre pagare un anticipo, lasciare una caparra per il futuro Qe: un’inflazione da monetarismo e probabile stagflazione come quella attuale, infatti, la contrasti solo in due modi. Uno ortodosso e l’altro no. Ovvero, un rialzo dei tassi o una crisi bancaria. Tertium non datur, per quanto ormai l’economia sia divenuta arte figurativa e non più scienza umana.
Ed è di mercoledì sera l’indiscrezione riportata da Reuters di una Bce che avrebbe repentinamente cambiato i propri piani, rinunciando all’annuncio dei particolari relativi agli acquisti di bond post-Pepp al board del 15-16 dicembre, proprio a causa di Omicron e dell’inflazione. Apparentemente, tutto rimandato al board del 3 febbraio. Evviva, ennesimo calcione al barattolo! D’altronde, la Bce mica poteva accorgersi in anticipo dell’arrivo di una fiammata inflattiva di lungo termine. O forse sì, essendo la stabilità dei prezzi il suo primo mandato statutario? Per essere una che non era arrivata a Francoforte per chiudere gli spread, Christine Lagarde pare invece aver operato unicamente in quella direzione. E ora, il conto sta arrivando in tavola. Per i cittadini. Per le imprese. Ma anche per i conti pubblici.
Attenzione a ritenere Olaf Scholz un cliente più malleabile, quasi un alleato rispetto ad Angela Merkel. Perché non ne ha minimamente la caratura politica, né il carisma. E, soprattutto, eredita un Paese che non può più permettersi di coesistere con un regime di tassi a zero perenni. Pericolosissimo combinato. Soprattutto quando la stessa esistenza del suo Governo dipende dall’appoggio dei falchi Liberali, ben più che dai già ridimensionati Verdi.
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