Ho sempre ritenuto le previsioni di crescita economica di Fmi e Banca Mondiale poco più che oroscopi. Non a caso, in gergo vengono definite hockey stick, poiché le continue revisioni di cui necessitano fanno assumere ai loro trend la forma tipica della mazza da hockey su ghiaccio. Quindi, il fatto che il loro ultimo report abbia clamorosamente smentito le previsioni interessate e apocalittiche sull’economia della Russia (base delle deliranti sanzioni Ue), di certo non rappresenta per me una notizia.
In compenso, la stampa mainstream da due giorni impone la sua nuova tabella di marcia propagandistica: è iniziata la controffensiva ucraina. Tradotto, chi mette in discussione le forniture di armi e le nuove sanzioni è un collaborazionista del Cremlino che boicotta la vittoria finale. Schemino fin troppo semplicistico. E ormai logoro. Ma terribilmente pericoloso, soprattutto ora. Soprattutto alla luce di almeno quattro nuove variabili. Delle quali, nemmeno a dirlo, la stampa tace l’esistenza.
Primo, dopo 12 anni, la Lega Araba ha riammesso al suo interno la Siria. Un fatto geopolitico enorme. Non foss’altro perché alla guida di quel Paese c’è lo stesso Bashar al-Assad, la cui caduta era ritenuta precondizione assoluta per qualsiasi iter di riammissione di Damasco nei consessi internazionali (e, quindi, anche a finanziamenti e aiuti per la ricostruzione). Ricordate il mantra Assad must go di Barack Obama e David Cameron? Sono andati via tutti, tranne Assad. Il quale, com’è noto, vanta dalla sua parte Russia, Cina e Iran. Ed ecco la seconda variabile, altrettanto importante. Martedì a Mosca si è tenuto un summit alla presenza dei ministri degli Esteri di Russia, Siria, Turchia e Iran al fine di attivare un processo di normalizzazione delle relazioni fra Damasco e Ankara. E il fatto che Recep Erdogan abbia dato via libera a un simile passo in piena campagna elettorale dimostra come l’attività diplomatica in atto sia qualcosa più di un mero tentativo di approccio. Tradotto, sia l’opposizione interna siriana che i curdi, alleati strategici degli Usa nell’area, di fatto sono stati messi con le spalle al muro dalla diplomazia filo-cinese. E quanto sta dipanandosi potrebbe creare le condizioni di medio termine per un effetto Afghanistan degli occidentali dalla Siria. Anzi, da quella parte di Paese ricca di snodi per petrolio e gas.
Terza variabile, la mostra questo grafico: la Cina sta manovrando dietro le quinte tutti questi enormi processi diplomatici.
Perché l’immagine mostra come i flussi di finanziamento di Pechino verso l’Africa si stiano prosciugando. Ma non per abbandono del campo, poiché i repayments oggi superano per controvalore i nuovi prestiti, stante il grace period di 5 anni concesso da Pechino ai creditori. Detto fatto, il balzo alla voce new loans del 2016, oggi conosce l’inizio di un processo strutturale di reverse. Molto meno ricattatorio, quantomeno a livello di tempistiche e imposizione di politiche interne, dell’iter classico dei programmi di assistenza del Fmi. Perché Pechino ha ottenuto nel frattempo in garanzia qualcosa di ben più importante: infrastrutture e sfruttamento di materie prime. Beni reali, hard assets in un mondo di Qe, carta straccia e derivati.
La Cina può insomma operare da regista geopolitico altrove. Nel cuore della nuova Heartland, il Medio Oriente. E il Golfo. Da dove arriva la quarta variabile, ovvero il fatto che il Royal Group di Abu Dhabi sia stato fra i principali beneficiari del crollo bancario statunitense, avendo costruito un’enorme posizione short sulle equities Usa già da inizio anno, diversificando il portfolio verso Treasuries a breve scadenza. E non si tratta di un fondo da poco, bensì di quello capitanato dallo sceicco Tahnoon bin Zayed Al Nayhan, adviser della sicurezza interna degli Emirati Arabi Uniti. I quali, voltano le spalle agli Usa. Anzi, guadagnano sui tonfi di Wall Street.
Il Golfo, nuova trincea diplomatica? Dove l’Ue manderà Luigi Di Maio. Dopo aver imposto sanzioni sulle aziende cinesi che aiutano Mosca. Stiamo suicidandoci. E attenzione, perché rischiamo di perdere di vista il vero punto nodale. Da giorni si parla molto della scelta del Governo tedesco di valutare un piano per ridurre il prezzo dell’energia al kWh a 6 centesimi dagli attuali 27 per alcuni comparti industriali particolarmente energivori. Gli stessi colpiti dallo sprofondo negli ordinativi di marzo. La misura dovrebbe costare fra 25-30 miliardi di euro e durare fino al 2030. E, piaccia o meno, la Germania può permettersi quello scostamento di bilancio ulteriore, dopo il salasso della de facto nazionalizzazione di Uniper e delle altre utilities a rischio di Lehman energetica nel post- Gazprom. Ma signori, il contesto in cui va inserita questa scelta non è quello utopistico, ipocrita e un po’ da unicorni infantili dell’unità europea che va in frantumi. Il contesto è questo.
Il PMI Composite della Germania relativo al mese di marzo è salito a 52.6 da 50.7 di febbraio. Confortante. Il problema è che a trainare pressoché interamente quell’aumento sia stato il settore dei servizi. Gli ordinativi industriali della principale economia dell’eurozona, infatti, sono letteralmente precipitati al livello più basso dall’inizio della pandemia. Qualcosa come -10.7 contro attese di -2.3 e soprattutto contro il +4.5 di febbraio. Solo due volte negli ultimi 50 anni l’industria tedesca aveva dovuto dare i conti con un dato macro simile: il Covid, appunto, e il 1991. Ovvero, la peggiore pandemia della storia moderna e l’anno della Riunificazione dopo la caduta del Muro di Berlino. Ovvero, l’anno zero. E dopo il dato allarmante dei nuovi ordinativi, ecco quello della produzione industriale tedesca di marzo a segnare un -3,4% su base mensile contro attese di -1,5%, sospinto verso il basso da un -6,5% dell’output automotive. Macchinari ed equipaggiamenti segnano invece -3,4% e le costruzioni -4,6%, portando il risultato generale della produzione totale a uno scenario da recessione pandemica.
Certo, tutto questo sarà solo passeggero. Certo, la Germania non è più un proxy credibile dell’economia Ue. Certo, il quadro energetico non deve far preoccupare come lo scorso autunno. Tutto vero (forse, molto forse). Normalmente, i cicli economici tedeschi anticipano di 3-4 mesi quelli italiani, stante il livello enorme di interdipendenza fra le due economie. E il fatto che a trainare al ribasso gli ordinativi industriali sia stato soprattutto il settore automobilistico dovrebbe far pensare: quante piccole e medie aziende, soprattutto del Nord Italia, dipendono pressoché totalmente dal loro ruolo di fornitore o subfornitore di macchinari e componentistica per l’industria teutonica? Ora, proviamo a contestualizzare il dato in base alla dinamica classica dei cicli: se fra 3-4 mesi il fallout di questa crisi industriale tedesca andrà ad abbattersi su un comparto italiano che starà già scontando una contrazione degli standard creditizi, cosa accadrà? Il tutto con una Bce che, almeno nelle intenzioni, pare intenzionata a proseguire con gli aumenti dei tassi almeno fino a giugno.
In Italia, il tema non appare minimamente in agenda. Né da parte del Governo, né dell’opposizione. Ma, soprattutto, né di Confindustria, né dei sindacati. Eppure, i numeri parlano chiaro. Con la fine degli incentivi emergenziali legati alla guerra ucraina, la bolletta relativa al bimestre terminato ad aprile è risultata mediamente del 22,4% più cara della precedente. E gli stoccaggi del nostro Paese sono al 60%. Con di fronte un’estate che necessiterà di condizionamento. E un autunno che rischia di riproporre i problemi di quello 2022. Anzi, peggiori. Dove sono le alternative – reali – all’energia russa? Non pensarci – ADESSO – potrebbe risultare fatale. E far letteralmente esplodere il Def.
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