A Natale si è tutti più buoni, ok. Questo non significa però obbligatoriamente anche essere più fessi. Quindi, spero che nessuno si offenda se salterò a piè pari l’idiozia dell’avvelenamento di Aleksey Navalny con il Novichok nelle mutande: dopo la fuga del mullah Omar in motocicletta, penso che questa rappresenti una delle vette più alte di idiozia mai raggiunta dalla disinformazione globale. Stendo quindi un velo pietoso anche sulla presunta confessione ottenuta da un agente dei servizi russi, gabbato dal dissidente con un trucco telefonico degno di Scherzi a parte. Se vi interessano le spy story che potrebbero essere state partorite dalla mente geniale e mefistofelica della rana Kermit del Muppet Show, rivolgetevi quindi con fiducia ai soliti quotidiani autorevoli. Da quelle parti la ricostruzione ha suscitato grande interesse, misto alla solita indignazione da salotto buono che la Russia la preferiva quando ad ammazzare i dissidenti erano i leninisti convinti sotto l’ombrello ideologico di un’ortodossa e brechtiana linea di condotta.
Questo non significa che non stia succedendo qualcosa di serio, però. Ovviamente, in questo caso occultato con perizia certosina dai medesimi media, troppo occupati con l’intimo radioattivo del Solženicyn de noantri. Ad esempio, il fatto che l’ennesima puntata del giallo ha acuito ulteriormente le tensioni fra Germania e Russia, tanto da spingere Mosca a convocare l’incaricato d’affari tedesco per preannunciargli ritorsioni in risposta proprio delle sanzioni punitive decise da Berlino contro funzionari russi. La Germania ha definito l’atto “ingiustificato”, ma questa volta la rabbia del Cremlino, figlia legittima e diretta proprio dell’ultima sparata di Aleksey Navalny e del risalto garantitagli dai media occidentali, pare seria: la Russia ha deciso un bando rivolto a tutte le figure istituzionali tedesche dalla Russia, di fatto bloccandone la libertà di movimento nel Paese. Insomma, Angela Merkel non potrebbe andare di persona da Vladimir Putin per un chiarimento. Almeno, a livello formale.
E se la risposta di Vladimir Putin all’ennesimo capitolo della saga lasciava di per sé trasparire la fase terminale della pazienza, quando sottolineava come il dissidente non fosse persona di livello tale da “meritare” un avvelenamento, ecco che in pressoché contemporanea con la convocazione della feluca tedesca lo scorso martedì 22 dicembre, il giorno precedente il Cremlino aveva già alzato il tiro in quello che è parso a molti uno spoiler di quanto stava per accadere. Il portavoce della presidenza, Dimitry Peskov, infatti ha bollato come “warfare ibrido tipico della strategia americana” l’annunciato ampliamento delle sanzioni contro il progetto di pipeline Nord Stream 2, di fatto l’accordo energetico fra Europa e Russia da sempre contestato da Washington e che vede nella Germania lo sbocco finale, geografico e politico.
E in effetti, sfruttando il medesimo Defence Bill che oggi Donald Trump minaccia di bloccare pur di ottenere un ampliamento dei sussidi federali nel piano bipartisan del Congresso, gli Usa hanno pesantemente aumentato il livello di minaccia diretta contro tutte le aziende – principalmente europee – che collaborino con il consorzio legato all’infrastruttura. E, guarda caso, sono ricominciati gli attacchi hacker, persino contro i siti nucleari strategici statunitensi, immediatamente bollati come atti ostili di soggetti controllati dal Cremlino.
Stranamente, la violazione dell’arsenale Usa in grado di cancellare il mondo solo premendo un tasto non ha minimamente fatto salire il Vix, l’indice di volatilità del mercato. In compenso, lo stesso – solo tre giorni dopo la notizia della violazione informatica – ha registrato un +40% intraday per la scoperta della variante inglese del Covid. Non ci sono più i Dottor Stranamore di una volta, adesso basta un virus. Detto fatto, il rublo ha cominciato a precipitare nel cambio, ai livelli più drastici dallo scorso marzo.
Ecco l’hybrid warfare. Al suo meglio. O quasi. Perché certi timing, ormai, appaiono decisamente pacchiani e rivelatori. Quasi la situazione stesse precipitando verso un livello di insostenbilità geopolitica tale da mandare in pensione ogni minimo sindacale di raffinatezza nell’agire: insomma, destabilizzazione da elefante in cristalleria. E su più fronti. Nel silenzio generale, domenica 20 dicembre l’ambasciata americana a Baghdad è stata bersaglio di un attacco missilistico. Nemmeno a dirlo, Washington ha immediatamente individuato i responsabili quasi in tempo reale: gruppi insurrezionali interni ma filo-iraniani. Insomma, quinte colonne di Teheran nel Paese. Ed ecco che il 23 dicembre, Donald Trump rompe gli indugi con questo tweet di minaccia diretta al regime degli ayatollah: se un solo americano dovesse morire in Iraq, sarà l’Iran a pagarne il conto.
Perché questa nuova escalation contro Teheran, dopo l’omicidio mirato del numero uno del programma nucleare iraniano, rimasto a tutt’ora senza la risposta minacciata dai pasdaran contro Israele? Solo un avvelenamento dei pozzi di politica estera prima dell’ingresso di Joe Biden nello Studio ovale? La risposta ha ancora a che fare con il business, nella fattispecie le fonti strategiche di energia. Come confermato da un report molto dettagliato di Oilprice.com, infatti, il 21 dicembre sono cominciate le operazioni congiunte sino-iraniane di trivellazione del mega-giacimento off-shore di South Pars, vero e proprio Eldorado del gas naturale su cui Teheran conta per portare a termine la Phase 11 del suo piano energetico. E i tempi stringono, quantomeno in base allo scadenzario prefissatosi dal regime, il quale intende recuperare il tempo perso e arrivare puntuale all’appuntamento di fine anno, ovvero al 21 marzo 2021, in virtù del calendario persiano.
Tempo perso rispetto a cosa? All’impegno cinese. Il quale, infatti, avrebbe dovuto terminare con il ritiro operativo annunciato nel 2019 e invece pare quantomai serrato e interessato, tanto da vedere Pechino in prima linea nei progetti di compartecipazione energetica che riguardano anche la pipeline Goreh-Jask e il cluster di pozzi petroliferi di West Karoun. Insomma, un vero e proprio network energetico completo: un game changer assoluto nel panorama globale. E i soli numeri di South Pars parlano chiaro, al riguardo: l’infrastruttura interessata fa infatti riferimento a 3.700 chilometri quadrati dei 9.700 totali di giacimenti condivisi con il Qatar (cui fanno riferimento i 6.000 del North Dome), di fatto critici e determinanti non solo per la produzione di gas naturale iraniana ma anche per garantirsi il ruolo di leader mondiale nel mercato del gas naturale liquefatto (LNG). Non a caso, le cifre e gli interessi in discussione hanno spinto gli Usa al ritiro dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) nel maggio 2018 e alla decisione di re-imporre sanzioni contro Teheran, ovviamente con la scusa del nucleare a scopo bellico. E le pressioni statunitensi furono tali da spingere Total al ritiro dall’operazione in Iran, peccato che la quota di maggioranza del gigante petrolifero francese – il 50,1% – fu rilevata dalla China National Petroleum Corporation (CNPC), cui Teheran fece ponti d’oro, offrendo uno sconto del 15% per nove anni sul valore di tutto il gas scoperto e recuperato nel corso delle operazioni.
E per capire e mettere in prospettiva il volume di business, basti ricordare come il calcolo avvenga non in base alle valutazioni di mercato relative al prezzo del gas naturale, bensì sulla metrica cost/return applicata dal gigante cinese dell’energia: a oggi, il valore del sito di South Pars viaggia quindi attorno ai 135 miliardi di dollari. Il tutto per un progetto cui faranno riferimento 24 pozzi, due piattaforme e un pipeline di flusso diretto verso la costa iraniana, mentre una seconda piattaforma verrà installata in una location differente. Un piatto ricco, troppo ricco perché Pechino potesse cedere alla diplomazia ed evitare una palese e sfrontata violazione delle sanzioni Usa. Non a caso, scoppiò la guerra commerciale a colpi di dazi e tariffe, ennesima dissimulazione di una prova di forza reale. Ma le sanzioni statunitensi vengono bypassate dall’Iran anche a livello di finanziamento iniziale, visto che i bond in fase di strutturazione per finanziare l’avanzamento dei lavori – fra cui sukuk, quindi anche con forte appeal confessionale per il mondo islamico che non contempla i concetto di interesse sull’investimento – verranno venduti tramite canali finanziari e di collocamento cinesi.
Ecco quindi il perché dei molti fronti di attacco all’Iran messi in campo dal binomio Usa-Israele, dagli omicidi mirati come atti di provocazione diretta alla diplomazia parallela dell’amministrazione Trump per la nascita e il consolidamento di patti e riconoscimenti bilaterali fra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Ed ecco, quindi, saltare fuori anche la last resort storica di ogni strategia statunitense contro l’Iran: il nemico storico, l’Iraq. Il cui stato di salute finanziaria è plasticamente rappresentato da questi quattro grafici, straordinario concentrato di disperazione economica che opera da volano per possibili operazioni di destabilizzazione e false flag da parte di spezzoni infedeli delle forze armate o di gruppi estremisti sunniti contrari al governo centrale e pronti a sfruttare l’occasione, accettando il tacito compromesso offerto da Washington di avere mano libera ma millantando matrice rivendicativa differente. Ovvero, filo-sciita. E filo-iraniana.
Con la produzione petrolifera tagliata del 12% su base annua in ossequio alla politica Opec (disattesa più di una volta da Baghdad, come mostra l’andamento al rialzo dell’ultimo periodo) e il dinaro appena svalutato – per la prima volta dal 2003 – al tasso ufficiale di cambio di 1.450:1 sul dollaro dal precedente 1.190:1, Baghdad si trova nella condizione di non poter dire di no ai desiderata degli Usa. Tanto più che il primo ministro, Mustafa Al-Kadhimi, salito al potere solo a maggio, ha ammesso che sarà una sfida improba quella di riuscire a pagare i dipendenti pubblici senza dover accumulare altro debito. E con le riserve valutarie in fase di prosciugamento e una dinamica iper-inflattiva all’orizzonte, il rischio di una Holiday surprise sotto forma di nuovo conflitto nel Golfo, più o meno proxy, appare tutt’altro che peregrino.
Warfare ibrido, appunto. Ma la stampa autorevole pare troppo occupata con le mutande di Aleksey Navalny per darne conto.