Cosa ci insegna a livello economico e finanziario questo periodo bellico? Perché in tutto, persino nella guerra, c’è un qualcosa da imparare, un lato positivo di cui occorre fare tesoro per non ripetere gli errori del passato. Cominciamo dal rublo. L’8 marzo aveva toccato 140 nel cambio con il dollaro: erano i giorni caldi delle sanzioni occidentali, quelli in cui la stampa con l’elmetto e la foto di Zio Sam sul comodino mangiava pop-corn in attesa del default e gioiva per le file ai bancomat di Mosca. Bene, lunedì il medesimo cross è sceso sotto la soglia psicologica di 90, per l’esattezza 84 alla chiusura di martedì: il minimo dal 1 marzo. Ma, soprattutto, il recupero totale di quanto perso dall’inizio delle sanzioni. Come se nulla fosse accaduto. Come se l’Occidente non avesse messo in campo alcuna contromisura. Come mai? 



Semplice, per due ragioni strettamente correlate. Primo, la decisione russa di imporre il pagamento del proprio gas unicamente in rubli e non più in dollari o euro. Secondo, proprio da lunedì 28 marzo la Banca centrale russa ha dato il via a una finestra di acquisto di oro fisico sul mercato che durerà fino al 30 giugno. Ma lo ha fatto a un prezzo fisso: 5.000 rubli al grammo. Ha imposto un fixing fuori mercato. Soltanto il venerdì precedente, quando il cross fra valuta russa e dollaro era ancora in area 100, la prezzatura di mercato era infatti superiore ai 6.000 rubli per grammo. 



La Banca centrale sapeva qualcosa? No, semplicemente il mercato ha unito le due dinamiche e ha fatto i conti con un duplice ancoraggio della moneta russa, il cosiddetto backing: ovvero, a garanzia implicita del rublo c’erano gas e oro e non la stamperia digitale del programma di Qe di una delle tante Banche centrali del mondo. Ovvero, una commodity energetica il cui valore intrinseco va oltre le valutazioni spot di Amsterdam – come dimostra lo stato di allarme proclamato ieri in Germania – e si traduce nell’irrequietezza con cui il G7 ha sposato la tesi della violazione contrattuale nel respingere l’ultimatum del Cremlino di pagamenti in rubli già da domani, 1 aprile. E poi, il bene rifugio per eccellenza, l’oro. Quello che appare difficile congelare, a differenza delle riserve valutarie. Non fosse altro perché la confisca di quello depositato presso caveau esteri o Fmi si sostanzia agli occhi del diritto internazionale proprio come una violazione. Ben più seria e sostanziale del cambio di denominazione dei pagamenti del gas.



Insomma, in un mondo che dà per scontato il Qe perenne, la Russia non solo ha ragionato fin dallo scorso autunno con i vecchi canoni dell’economia, cominciando ad alzare i tassi per contrastare l’inflazione, ma è andata in netta controtendenza: ha portato pressoché a zero le sue riserve in dollari e aumentato a dismisura quelle in oro fisico, lanciando i prodromi impliciti della sua commodity-backed currency. Appunto, il rublo ancorato a gas e oro e non a un comando digitale di creazione di denaro dal nulla. Un segnale enorme. Che va oltre la guerra e l’emergenza bellica generata da sanzioni e congelamento dei beni, fattispecie che ha costretto Mosca a scelte emergenziali: qui siamo di fronte a un cambio di paradigma, a un sistema de-dollarizzato che non riguarda solo la Russia, ma, ad esempio, gli scambi che questa ha con Cina, India e Iran. Praticamente, l’altra metà del mondo che non risponde al Patto atlantico. Per non parlare dell’Africa, visto che 15 Paesi del Continente nero si sono uniti a Pechino nell’astensione all’ultimo voto dell’Onu di condanna dell’azione militare russa e sono sempre maggiormente legati al patto rosso, non fosse altro per la presenza ormai dilagante del Dragone a colpi di prestiti miliardari a fronte di avamposti strategici – vedi la base militare a Gjibouti – e diritti di sfruttamento di commodities fondamentali per le nuove tecnologie, vedi il litio o il nickel. 

E dall’altra parte, cosa abbiamo? Le prime ammissioni, come mostrano questi grafici, contenuti nell’ultimo report della Fed di San Francisco e, di fatto, la conferma di quanto sostenuto già la scorsa estate da Larry Summers: ovvero, se inondi una società con trilioni di stimolo per la spesa, generi inevitabilmente un’ondata inflattiva. 

Ovviamente, per mesi sia negli Usa che in Europa si è interessatamente venduta al pubblico la favoletta della transitorietà dell’aumento dei prezzi, ma ora il Re è nudo. E quei due grafici parlano chiarissimo: l’attuale trend dei prezzi statunitense, superiori al 7% e già in doppia cifra in base a letture meno ortodosse di quelle ufficiali, è totalmente ascrivibile al programma di stimolo lanciato da Fed e Tesoro per contrastare il Covid. La seconda immagine è addirittura disarmante: le esplosioni di picco del reddito disponibile per i cittadini Usa sono perfettamente sovrapponibili all’entrata in vigore prima del Cares Act e poi degli altri pacchetti di stimolo. Terminati i quali, il potere d’acquisto si è sgonfiato. In maniera duplice. Ovvero, in termini assoluti, ma anche relativamente a dinamiche dei prezzi che invece sono volate alle stelle, per l’esattezza al massimo dal 1982. 

Certo, il dollaro è e resta la valuta benchmark mondiale e prima che venga spodestato da quel ruolo ci vorranno anni. Forse ancora decenni. Ma quanto creatosi giocoforza per la contrapposizione fra Nato e Russia, esacerbando dinamiche già palesatesi chiaramente durante l’Amministrazione Trump (Russiagate prima e guerra delle tariffe con la Cina poi), ha senza dubbio creato i prodromi di altro, di una polarizzazione che non vede contrapposti soltanto sistema democratico e liberale da un lato e regime autoritario dall’altro. Bensì, un mondo di denaro senza valore e stampato con il ciclostile e un altro che invece lega sempre maggiormente la sua valuta a commodities di vario genere, siano esse energetiche, strategiche come le terre rare o di mero rifugio come l’oro o la valuta digitale di Stato. 

E attenzione, perché questo ultimo grafico è altrettanto inquietante: in base alla Taylor Rule – ovvero, la regola elaborata nel 1993 dall’economista statunitense J.B. Taylor e che indica come la Banca centrale dovrebbe far variare il tasso di interesse nominale in risposta a shock che provochino lo scostamento del Pil reale e del tasso di inflazione-obiettivo -, oggi la Fed è talmente dietro la curva da necessitare (teoricamente) un aumento di qualcosa come 1.155 punti base per tornare meramente alla normalità, stante il tasso di inflazione e disoccupazione. La follia totale, insomma. 

L’unica certezza? Recessione garantita, stando almeno al livello di inversione dei rendimenti raggiunta negli Usa. Per il resto, mai come oggi ci troviamo nel proverbiale uncharted territory. La speranza è che tanti morti e dolore almeno lascino questa lezione come eredità. Anche se le possibilità che questo accada, stante il criminale livello di leverage e indebitamento raggiunto dal sistema finanziario e dai deficit statali, in realtà assomigliano molto a quelle della Salernitana che approda senza preliminari nella Champions League 2022/2023. 

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