Dunque, Giancarlo Giorgetti avrebbe comunicato alla Premier l’intenzione di abbandonare la guida del Mef. Se fosse vero, verso quale destinazione? Un posto nella nuova Commissione europea, come scrive La Repubblica? Oppure si tratta semplicemente di un abbandono della nave dei conti pubblici prima che affondi, come scriveva chiaramente Luigi Bisignani su Il Tempo di domenica?
Entrambe le versioni appaiono credibili. La prima più della seconda, in realtà. Resta un fatto. I conti pubblici stanno per presentare a loro volta il conto. Inutile che vi racconti per l’ennesima volta il dipanarsi triste e irresponsabile della fiaba in base alla quale il debito italiano sarebbe magicamente divenuto sostenibile, se a detenerlo fosse stato il Signor Rossi in versione giapponese. Troppo ho scritto al riguardo. E d’altronde, i rendimenti risicati e le valutazioni già sotto la parità dei Btp indicizzati parlano da soli. Non solo il Signor Rossi non ha 10.000 euro a bimestre da regalare alla Patria. Soprattutto, si è appena scottato. E al netto di un masochismo di massa, questo sì degno di una setta millenaristica nipponica, difficilmente ricadrà nell’errore.
Tempi bui per i consulenti bancari. Tempi bui per le banche. Qualcuno quel debito deve comprarlo. Soprattutto se ora la Bce compirà davvero l’errore epocale di tagliare i tassi, certamente non una mossa toccasana per l’appeal dei nostri titoli di Stato. Se poi a fine anno comincerà davvero l’off-load dei Btp acquistati in seno al Qe pandemico, il mitico Pepp che con il suo reinvestimento titoli sta tenendo a galla lo spread ormai da più di un anno, allora il problema sarà davvero serio. Giancarlo Giorgetti lo sa. E come testamento, ha lasciato questo. Un bello studio relativo all’andamento storico e comparato della liquidità dei nostri titoli di Stato. Aggiornato al 2023.
Sembra complesso (e in effetti un po’ lo è), ma, alla fine, questo grafico aiuta.
Cosa ci dice? Evidenzia trend, pattern e fenomeni specifici su archi temporali determinati relativi alla liquidità e volatilità dei titoli di Stato del Belpaese, appunto. Se si considera l’andamento medio bid/ask (domanda/offerta), si scopre che nel 2022 si è superato il valore di 0,01 (sintomo di illiquidità in aumento), ma senza raggiungere però i valori record del 2018. O quelli comunque molto alti del 2012 post-crisi dei debiti Piigs e del 2009 post-Lehman. Ora date un’occhiata al 2018 (Governo Conte 1): anche Mr. Magoo scorgerebbe un fenomeno di pericolosa illiquidità, stante valori superiori a 1 e uno spread bid/ask ponderato sui volumi (VWBA) che offre uno spaccato decisamente interessante rispetto a una potenziale classifica dei periodi di maggior volatilità. O, se preferite, di crescente percezione del rischio Paese. Al primo posto proprio l’Esecutivo Conte 1 (2018), seguito nientemeno che dalla crisi dei debiti sovrani del biennio horribilis 2011-2012 e solo sul gradino più basso del podio l’accoppiata subprime e pandemia.
Ma ora prendiamo il quadro generale. Tagliando la materia con l’accetta, possiamo infatti concludere senza timore di smentita che fino al 2012, ovvero fino a quando la Bce ha fatto la Banca centrale e non il bancomat, la volatilità media sui titoli di Stato italiani era decisamente alta. Detto fatto, il Whatever it takes di Mario Draghi ha messo a posto le cose. Fino al 2018, però. Ovvero all’arrivo del Governo Conte 1. Paradossalmente, nemmeno la fiammata inflattiva e il repentino ciclo di rialzo dei tassi dell’ultimo anno e mezzo ha generato fenomeni di instabilità e volatilità come quelli del 2018. Giancarlo Giorgetti deve aver dato una bella occhiata a questo report del suo ministero. Deve aver preso atto. E deve aver fatto quattro conti. Perché l’eredità del Superbonus è lungi dall’aver scaricato interamente il suo fardello di perdite non contabilizzate e deficit strutturale. E a questo proprio l’articolo di Luigi Bisignani di domenica scorsa unisce il rischio potenziale di una seconda bolla ascrivibile al premierato di Conte, in questo caso nella versione con l’attuale sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, come titolare del Mef. Qualcosa come un potenziale di 300 miliardi di crediti delle banche garantiti da Sace e Mediocredito Centrale a rischio.
I due soggetti, infatti, attraverso “Garanzia Italia” e “Fondo di Garanzia PMI” a partire dal 2020 hanno prestato garanzie alle banche che concedevano finanziamenti a imprese con coperture dal 90% al 70%, in base a fatturato e dipendenti. A detta di Bisignani, la cosa sembra però essere sfuggita di mano perché è continuata ben oltre il termine dell’emergenza pandemica. Un’altra bomba quindi sui conti dello Stato pronta a deflagrare e a far saltare in aria il bilancio pubblico. Ora, unite la zavorra del Superbonus a un deficit al 7,2% e una ratio debito/Pil che non conosce calo strutturale. Shakerate il tutto e poi mettetelo in un bicchiere da cocktail che si chiama Patto di stabilità. Tutto quel liquido non ci sta. Qualcosa andrà perso. Qualcosa va buttato. Nel nostro caso, va tagliato. E con la mannaia.
Giancarlo Giorgetti non più tardi di un mese fa aveva garantito che non ci sarebbe stata manovra correttiva in autunno. Ha mentito. Lo dicono i numeri. Perché ora, al netto della denuncia di Luigi Bisignani, occorre fare i conti con un debito pubblico i cui titoli potrebbero tornare in negoziazione secondaria e in modalità alla deriva. Lo studio del Mef parla chiaro: senza Bce, salta il banco. Persino con i nostri istituti di credito che acquistano Btp col badile. E avendo utilizzato la tassa sugli extra-profitti per ricapitalizzare, potete capire con quanto entusiasmo si presterebbero all’ennesimo, oneroso (e questa volta rischioso) doom loop.
La via della detenzione interna di massa è fallita. Non siamo il Giappone. Non lo saremo mai. Senza Bce, già oggi il nostro debito andrebbe ristrutturato. A colpi di haircut e manovre lacrime e sangue. Guardate i grafici. Appena il mercato ha subodorato le mosse da Bengodi populista del Conte 1, la volatilità è salita. Persino più del Covid. Persino più del 2011. Siamo ostaggio di noi stessi e del nostro debito, signori. Non siamo ostaggio del mercato o dell’Europa. Giancarlo Giorgetti lo sa. E in cuor suo, forse pensa che sia più utile un posto accanto a Mario Draghi nella Commissione europea, al fine di limitare l’impatto della cura dimagrante che ci attende.
Certo, i Dottor Balanzone della maggioranza vendono tassi di disoccupazione dopati dai co.co.co e Pil frazionali come Mastrota vende i divani. Ma la realtà è un’altra. E il fatto che a certificarla sia proprio un report del Mef, probabilmente l’ultimo dell’era Giorgetti, assume i contorni della bandiera bianca che si issa, mesta ma inesorabile. Senza Bce è game over.
Come si fa ad andare a battere i pugni sul tavolo in Europa, in queste condizioni? Per favore, smettiamola con la campagna elettorale. E diciamo agli italiani la dura verità.
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