Il problema reale in situazioni ormai distopiche come quelle che stiamo vivendo è che, nonostante la realtà sia talmente evidente da essere ormai ammessa giocoforza dalle stesse parti in causa, nessuno pare accorgersene. O, peggio, prenderne atto. E reagire. Tutto appare normale. Lineare. Frutto unicamente dello sviluppo di dinamiche in naturale divenire. Così non è. E, come sempre accade, la cosa peggiore è che tout se tient.



Facciamoci qualche domanda, tanto per cominciare. Quanto deve essere sotto ricatto statunitense la Germania per aver dato vita a un’inversione di atteggiamento verso la Russia come quello in atto dall’avvelenamento (o presunto tale) di Aleksei Navalny? Ormai siamo al parossismo, armamentario da Guerra Fredda 2.0 in grado di tramutare il senatore McCarthy in un progressista. L’ultima minaccia è arrivata nel corso del fine settimana: o Mosca chiarisce l’accaduto o l’Europa si muoverà con nuove sanzioni. Tradotto, abbiamo trovato l’alibi per il rinnovo di quelle ancora in atto per la questione ucraina e per cui il Dipartimento di Stato preme tanto. Fin qui, asservimento che non stupisce. A rendere la questione più seria è invece l’opzione nucleare che Berlino sarebbe pronta a mettere sul tavolo per spaventare l’interlocutore: il blocco di Nord Stream 2.



Ora, per quanto uno possa appassionarsi al destino di una nullità politica come Aleksey Navalny (cui, umanamente, va invece tutta la mia solidarietà per un felice decorso sanitario), pensate che si arrivi a mettere in discussione un’infrastruttura energetica di quella strategicità e che negli anni ha visto gli Usa impazzire letteralmente nel tentativo di bloccarla, solo per porre fine al regime putiniano del Novichok? Davvero lo credete? Oppure, magari, Oltreoceano hanno fatto capire a Berlino che il futuro di almeno tre attori strategici della sua ripresa economica post-Covid potrebbero andare incontro a sgradevoli sviluppi? Mi riferisco ovviamente a Deutsche Bank e ai conti privati dell’allora imprenditore Donald Trump (dopo multe assortite già inflitte per una ventina di miliardi di dollari), a Bayer e al suo matrimonio con Monsanto sempre a rischio di qualche causa miliardaria e al comparto automobilistico, su cui pende ormai da oltre un anno e mezzo la spada di Damocle di eventuali regimi tariffari. E quando hai dovuto derogare ai tuoi dogmi sui conti pubblici per cercare di non farti azzoppare del tutto dal Covid, l’ipotesi che i tuoi sforzi vengano vanificati da una guerra commerciale e politica è l’ultima con cui hai voglia di fare i conti.



Il tutto, ricordandoci che la Germania è – oltre che socio forte e azionista di maggioranza europeo – anche presidente di turno dell’Ue fino a fine anno: insomma, Angela Merkel gestisce oggi più che mai il banco. E, infatti, ecco paventate ora anche in via diretta e ufficiale le nuove sanzioni. Non vi pare, poi, un po’ sospetto che il caso Navalny sia esploso proprio a ridosso dell’annuncio di Mosca relativamente a un vaccino contro il Covid, pronto a entrare in fase di avanzata sperimentazione di massa? Certo, potrebbe rivelarsi una bufala totalmente inefficace, ma, vista la situazione mondiale, perché bocciarlo a prescindere? Una cosa è certa: se partono nuove sanzioni, ovviamente a seguire arriverà il boicottaggio del vaccino russo. Anche perché, quantomeno a livello di percezione nell’immaginario collettivo, chi si farebbe inoculare una sostanza prodotta da uno che porta in fronte la nomea di Lucrezia Borgia dei tempi moderni? Si sa, anche se è sgradevole dirlo chiaramente: quello del vaccino per il Covid è un business enorme. Ma, ancora di più, è un catalizzatore politico e finanziario straordinario. E non solo per i giochetti da piazzisti da quattro soldi degli insiders di Moderna con i loro pump’n’dump del titolo: per tutti. Esattamente come l’Isis (altra coincidenza, mentre il Governo Johnson è nella bufera e il virus sta mostrando il vero fall-out economico del Brexit, a Birmingham va in scena una strana mattanza del sabato sera) o come la guerra commerciale fra Usa e Cina: si manipola la politica esattamente come i mercati, ciò che il compianto professor Giovanni Arrighi sintetizzava nella formula di caos e governo del mondo.

Guardate questi due grafici: il primo mostra la magnitudo della correzione dei corsi azionari, attraverso il proxy delle variazioni settimanali dello Standard&Poor’s500, occorsa lo scorso marzo. Per tutti, la causa fu il carattere pandemico assunto dal virus e il diffondersi a macchia d’olio dei lockdown globali. Vero. Ma, come spesso accade, quello fu solo l’accelerante dell’incendio doloso. Le fiamme divamparono a causa di materiali altamente infiammabili che rispondono al nome di liquidità, leverage, indebitamento, multipli di utile per azione, Qe sistemico. Il Covid ha solo gettato il cerino in una pozza di benzina. Ma cosa importa: la gente ci crede, quindi avanti con la stamperia globale in nome della lotta alla nuova, grande depressione in versione batteriologica. E con virologi in onda H24, tanto per amplificare per bene la cassa di risonanza.

E se, a causa del vaccino russo, venisse a mancare – anzi, scomparisse quasi dalla sera alla mattina – quel comodo alibi emergenziale a comando chiamato pandemia, in grado al tempo stesso di “stabilizzare” gli eccessi di mercato senza insospettire l’opinione pubblica e imporre scelte al limite del costituzionale da parte degli stessi governi che accusano Putin di democratura? Un bel rischio. Paradossalmente, peggiore anche di quello di perdere il business meramente finanziario della scoperta dell’antidoto al Covid.

Il secondo grafico, poi, ci mostra come già oggi i futures sul Vix, l’indice di volatilità dei mercati, segnalino le elezioni presidenziali Usa del prossimo novembre come il più grande tail risk mai paventatosi da quando vengono tracciate le serie storiche. Tradotto, chi opera sta già oggi coprendosi in maniera enorme dal rischio di un’esplosione della volatilità in vista dell’appuntamento del 3 novembre. E in attesa dei primi hacker russi pronti a manipolare il voto, ecco che subentra l’altro elemento di gravità assoluta a livello di rivelazione del disastro che abbiamo di fronte a noi.

Il 3 settembre scorso, ricorderete, Wall Street si è schiantata. In principal modo, il Nasdaq. E a far rumore sono stati i tracolli di due cavalli di razza come Apple e Tesla, quest’ultima finita addirittura in bear market in virtù del suo -25% dai massimi in soli quattro giorni di contrattazioni. Certo, qualche titolo sui giornali e una notiziola alla fine del tg. Ma niente panico. C’è l’avvelenamento di Aleksey Navalny di cui preoccuparsi. O, in subordine, la lotta al Covid nelle sue varie ed eventuali declinazioni. Bene, il giorno seguente a quel tonfo, il Financial Times rivelò che una delle ragioni alla base del tonfo così drastico dell’indice tech sarebbe da attribuire all’abuso di acquisto di opzioni call su singoli titoli trattati da parte di SoftBank, il conglomerato finanziario giapponese caduto in semi disgrazia dopo il flop di WeWork e il raffreddamento degli entusiasmi sauditi. Di fatto, il rally stesso del Nasdaq sarebbe stato ingigantito nei mesi scorsi dall’operatività di un singolo, per quanto enorme, soggetto di mercato e dalle sue scommesse rialziste. Cui, ovviamente, si sono accodati in massa hedge funds e investitori retail. Poi, al primo sintomo di paura, qualcuno ha esagerato con lo switch: ovvero, presi dal panico, si è cominciato a scaricare opzioni call e ci si è coperti come pazzi con opzioni put, mandando in cortocircuito un sistema ontologicamente squilibrato e auto-alimentando la sell-off.

Addirittura, il giornale della City ha coniato anche un nomignolo per SoftBank e la sua ultima incursione: NASDAQ-whale, la balena del Nasdaq. Ecco come un operatore ha descritto l’accaduto al Financial Times: “Le gente è stata colta letteralmente con i pantaloni abbassati. E questa dinamica può continuare, perché la balena pare ancora affamata”. Insomma, uno dei quotidiani più letti e autorevoli del mondo ammette candidamente che una parte sostanziale del rally tech tanto idolatrato dai media sia basato su una mega-scommessa speculativa di un singolo soggetto, fortemente a rischio di andare fuori controllo e nessuno dice nulla. Tutto bene. Tutto regolare, appunto.

Guardate però questa schermata di Bloomberg: ci mostra come il più grande fondo pensioni giapponese, statale, sia il quarto azionista di SoftBank e, quindi, anche acquirente indiretto di quelle opzioni rialziste high-beta di Apple, Tesla, Google, Amazon, Netflix, Zoom e via Nasdaq che in una sola sessione si sono schiantate per un eccesso di paura. Il problema è: quei pensionati giapponesi, sono consci di quanto accaduto e di quanto potrà potenzialmente accadere, ben di peggio?

Signori, stiamo davvero giocando a mosca cieca su un campo minato. E ormai la situazione è talmente disperata e palese da costringere le parti in causa, come il Financial Times, a doverlo ammettere, sperando nell’effetto illusionistico della dissimulazione. E attenzione, perché SoftBank ha comprato opzioni con il badile per tutto il secondo trimestre di quest’anno, muovendosi come un elefante in cristalleria. Eppure, finché questo ha garantito rialzi record, nessuno ha avuto nulla da ridire. Poi, al primo intoppo a Wall Street dopo settimane di record infranti, nell’arco di 12 ore il quotidiano della City scopre il colpevole e la dinamica esatta del suo delitto, roba da far impallidire il più noto connazionale Sherlock Holmes. Non sarà che, spiattellando una realtà nota a tutti in prima pagina e con il crisma sensazionalistico dell’inedito e dello scoop, qualcuno abbia voluto inviare un messaggio preventivo a chi di dovere in Giappone? Magari prospettandogli i rischi potenziali di un eventuale ridimensionamento del ruolo della Bank of Japan nella stamperia globale, alla luce delle dimissioni del suo padre nobile, Shinzo Abe?

Si sa, quei pacifici pensionati giapponesi potrebbero perdere la loro tradizionale flemma, in caso di rendessero conto del rischio che corrono i loro risparmi. Ma noi, come la rana bollita di Noam Chomsky, non ce ne rendiamo conto. Pensiamo ad Aleksey Navalny e alle sanzioni contro Mosca e il suo vaccino. Pensiamo al Covid e al timore di nuovi lockdown. Pensiamo a Black Lives Matter e alle violenze a Portland, ovviamente frutto del razzismo trumpiano. Tutto per evitare il confronto con un’unica, immutabile e ormai innegabile realtà: il sistema ha bisogno di emergenze permanenti che garantiscano Qe permanenti. Punto. Il problema è: quanto potrà andare avanti un regime simile? Sicuramente, fino a quando l’unico regime di cui ci faranno preoccupare sarà quello di Vladimir Putin.