Penso che servirà il grande spavento. E, probabilmente, Mario Draghi sta già lavorando parallelamente alla pratica. L’ennesima baruffa in sede di Consiglio dei ministri, questa volta sulla riforma della giustizia, pare abbia fatto saltare i nervi al presidente del Consiglio. Ora serve lealtà, avrebbe detto ai litiganti, facilmente identificabili come appartenenti al Movimento 5 Stelle, costretto a ingoiare un’agenda Cartabia che poco si concilia con le pulsioni da ghigliottina in piazza del partito di Grillo. Ma è solo l’ultimo caso.
La maggioranza, si sa fin dalla sua nascita, è un guazzabuglio. E in vista del voto amministrativo, la maionese rischia di impazzire del tutto. E il presidente del Consiglio – da uomo di mercato che prezza in anticipo le criticità, possibili e probabili – sa che deve evitare come la peste eventuali showdown da rendita di posizione elettorale fra settembre e ottobre. In quel periodo, varianti Covid permettendo (a mio personale avviso, saremo di nuovo in lockdown selettivo all’epoca), l’Italia si giocherà molto, se non tutto il carico di aspettative e potenzialità della ripresa. Sarà l’ultimo momento di possibile sfruttamento dell’abbrivio, l’ultima occasione per correre via succhiando la ruota a una Bce ancora operativa.
Come si dice in gergo, quello sarà il momento di portare il più possibile fieno in cascina. Perché al netto di possibili cambiamenti in corsa, la fine di marzo 2022 coinciderà anche con la fine della schermatura del nostro spread. A quel punto, liberi tutti nell’eurozona. E con una Germania entrata ufficialmente nel post-Merkel, quindi pirandellianamente in cerca d’autore. Molto pericoloso, perché potrebbe optare per un irrigidimento delle posizioni al fine di ribadire una leadership divenuta contendibile.
Occorre evitare fibrillazioni autunnali, insomma. E lo spoiler offerto dallo psicodramma manettaro dei Cinque Stelle non lascia intravedere nulla di buono all’orizzonte. Calcolando, poi, i rapporti sempre più tesi e inconciliabili fra Lega e Pd, destinati a precipitare nell’arco di pochi giorni, quando il Ddl Zan sbarcherà di fatto senza paracadute al Senato (12 luglio). Se per caso la legge-manifesto del partito di Enrico Letta dovesse finire sepolta per un errore di valutazione del Segretario, il rischio che in casa democratica si apra una fronda contro il numero uno è tutt’altro che peregrino. A quel punto, caos totale. Se invece dovesse passare senza i cambiamenti e le rimodulazioni richieste dall’ala di centrodestra della maggioranza, qualcosa potrebbe traballare in casa Lega-Forza Italia. Decisamente una rogna da disinnescare il prima possibile, stante anche la follia insita nel rischio di vanificare quanto ottenuto in sede europea per un non-sense legislativo che rincorre capricci e desideri mascherandoli da diritti e conseguente repressione degli stessi.
L’Italia non è la Bielorussia, siamo seri. Il rischio di fibrillazioni politiche c’è, il Governo deve fare qualcosa. E in mano a palazzo Chigi esiste un’arma decisamente efficace: il ricatto dello spread. Nell’arco di 48 ore, il nostro differenziale sul Bund è passato dalla mitologica doppia cifra alla chiusura di giovedì in area 108. Certo, il trend è stato generale sul debito, ma è chiaro che in un sistema come quello attuale, in cui l’unico market mover dei Btp è rappresentato dagli acquisti pro quota di Bankitalia su mandato dell’Eurotower, ci vuole poco a tramutare un venticello in uragano. Basta comprare meno per due, tre giorni. Scegliendo magari quelli con maggiore pressione al rialzo sull’intero comparto.
Mi concentro sulla Grecia, offrendo ai giornali un bel titolo a sensazione sul debito ellenico che paga meno premio di rischio di Italia e Spagna. E la Bce, in tal senso, non ha obblighi statutari con nessuno. Anzi, paradossalmente rientrando nell’alveo della capital key evita di attirarsi ulteriori mugugni della Bundesbank, anch’essa innervosita dalla fase pre-elettorale. Ed ecco che, a condizioni macro assolutamente invariate, lo spread italiano può passare da 95 a 150 nell’arco di una settimana. E l’effetto psicologico è garantito.
È il bello dei mercati manipolati dal Qe perenne: non servono miglioramenti o peggioramenti reali del tuo outlook per far muovere in un senso o nell’altro il rendimento dei titoli di Stato, basta l’ammontare di acquisto deciso a tavolino per la settimana a Francoforte. E si sa, alla bisogna, Mario Draghi non deve passare dal centralino, quando chiama l’Eurotower. Attenzione, quindi, a eventuali fiammate. Perché il combinato che le rende possibili è facilmente reperibile, esattamente come il materiale da giardiniere che usano i bombaroli del web per costruire il loro ordigni rudimentali a base di fertilizzante. Le banche italiane, stracariche di Btp, certamente non hanno problemi ad amplificare l’eventuale calo di acquisti della Bce, dando vita a un de-risk che è già durato per un paio di mesi durante la primavera. All’epoca nessuno se ne accorse, proprio perché il Pepp garantiva il cosiddetto off-set, controbilanciava le loro vendite con gli acquisti, mascherandoli. Ma se Christine Lagarde, impegnatissima nel trastullarsi con i nuovi parametri sull’inflazione e con l’inclusione della lotta ai cambiamenti climatici nelle scelte di politica monetaria, dovesse acquistare meno Btp e le banche italiane venderli anche in minima parte, entrando in scia alla sell-off, la drammatizzazione del trend a livello di percezione sullo spread apparirebbe immediata. E di grande effetto. Pur muovendosi in realtà su cifre prospetticamente ridicole rispetto all’insieme detenuto e di fatto sterilizzato ex ante e ad libitum dalla Bce.
Come reagirebbero Lega, M5S e Pd (Forza Italia, sinceramente, può agitarsi quanto vuole ma ormai conta come il due di picche) a una fiammata dello spread che finisca sulle prime pagine di tutti i giornali, rinverdendo i drammatici fasti del 2011 e di fatto puntando il suo tremendo indice accusatorio proprio verso l’instabilità politica percepita dai mercati rispetto al nostro Paese? Ci vorrebbe davvero poco: la troppa litigiosità, amplificata dal clima infuocato delle elezioni amministrative, metterebbe a rischio il processo di riforme, a sua volta imprescindibile e vincolante per l’ottenimento dei fondi Ue. Senza i quali, si sa, game over dopo oltre 120 miliardi di scostamento di bilancio. Se M5S con la sua pantomima sulla riforma della giustizia e il Pd con il suo falso irrigidimento sulla legge Zan intendevano mostrare i denti al presidente del Consiglio, quello spread salito di colpo in 48 ore pare aver risposto a certe pisciatine marca-territorio elettoralistiche.
Attenzione, a palazzo Chigi c’è qualcuno che non intende rovinarsi nome e profilo internazionale per le necessità da cabina elettorale di Letta, Salvini o Di Maio. Se servisse – e, temo, servirà – saprà muovere i pezzi sulla scacchiera in modo tale da mettere tutti con le spalle al muro, di fronte alle loro responsabilità e soprattutto alle potenziali conseguenze da pagare. L’arrivo di Mario Draghi ha cambiato spartito e narrativa, la logica del ricatto da coalizione è finita: ora, a palazzo Chigi c’è chi tiene davvero il coltello dalla parte del manico. Con mandato pieno di un Quirinale con il proprio inquilino a fine corsa, quindi sempre meno propenso a mediazioni al ribasso. Tutti avvisati, in caso di eventuale percezione di crisi alle porte. L’unico pericolo reale arriva dal voto tedesco e dai bilanci bancari dell’eurozona, basti rileggere in tal senso le parole di Andrea Enria nella sua lectio all’Università Federico II di Napoli della scorsa settimana: il resto è solo rumore di sottofondo.
La conseguenza da trarre? La politica è finita, siamo in piena tecnocrazia 2.0. E, forse, converrà porsi la domanda se sia poi così male, stante gli ultimi, deliranti anni di plebiscitarismo dell’incompetenza che abbiamo vissuto.
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