L’errore più grande che si possa fare, è quello di ridurre l’incidente sul superbonus all’approssimazione della destra al Governo come ha fatto ieri La Repubblica. Per tre ragioni. Primo, perché non è un incidente. Secondo, perché il superbonus è un veleno ad azione lenta che è stato somministrato per un tempo di almeno due anni e mezzo. Terzo, perché non si tratta di approssimazione. Ma disperazione.



Se il ministro per i Rapporti con il Parlamento affida al Corriere della Sera la sua ricetta, apparentemente di buonsenso, basata sullo sgonfiamento della bolla, prima di ogni possibile mediazione, sempre il quotidiano di via Solferino ospitava in prima pagina un Paolo Gentiloni che avvisava senza tanti giri di parole: La Ue chiede un report sugli effetti del 110%. Cercavamo un detonatore del Mes o comunque propedeutico a una qualche forma di commissariamento pre-Tpi? Eccolo. E a questo punto, i sospetti attorno a quella fuga senza sfiducia parlamentare del Governo Draghi diventano macigni. Così come l’apparente volontà del Quirinale di spedire il Paese alle urne in tempi record, quando fino a pochi mesi prima le elezioni erano viste come una sorta di pericolosa distorsione della democrazia da accettare controvoglia e come unicamente come extrema ratio.



Il Governo ha fatto ciò che doveva. Ma tardi. Ormai i buoi sono usciti dal recinto. In massa. Non a caso, nemmeno 72 ore dopo l’annuncio del ministro Giorgetti in conferenza stampa post-Cdm, ecco la convocazione di banche e associazioni dei costruttori attorno a un tavolo di confronto con il Governo per la giornata odierna. Difficile definire stop una decisione che dopo tre giorni già viene rivista. E poi, non occorreva prima sgonfiare la bolla, quantomeno a detta del ministro Ciriani? Confusione da panico, da lotta contro il tempo. Tanto più che la ricetta che viene fatta filtrare come possibile cuscinetto sembra uscita dal playbook statunitense del 2007: cartolarizzare i crediti incagliati del superbonus. Tradotto, rendere negoziabile uno strumento finanziario che non lo è. Quindi, liquido. Di grazia, tramite quale artificio? O, peggio ancora, tramite quale incentivo? Perché quando scatta l’emergenza, tutto diviene necessario per il bene comune. Ogni sacrificio, ogni forzatura è vendibile all’opinione pubblica come obbligata. Lo fu la cura Monti, lo fu la Legge Fornero, lo fu persino l’incursione nottetempo di Giuliano Amato nei conti correnti degli italiani. Dove finiranno quei crediti che le banche non scontano più e che già stanno pellegrinando fra le sette chiese di finanziarie e soggetti para-bancari, stante Enti locali terminati in fuorigioco e con il cerino in mano? Chissà.



Certo, quest’anno il Tesoro deve emettere debito da rifinanziare con il badile. Circa 400 miliardi a medio e lungo termine. E con i rendimenti già in salita. E senza Bce. E già oggi operando in modalità televendita della Eminflex, stante un’inflazione che recita la parte del miele per gli orsi. Quasi il trend dei prezzi dovesse restare a doppia cifra per altri 5-6 anni. Mentre la stessa Bce appare chiaramente intenzionata a riportarlo in area 2% molto prima. Che fine faranno quei crediti illiquidi e non negoziabili, se non a sconto da fire sale? Inutile prenderci in giro. Sottobanco, già oggi si opera in modalità 12 settembre 2008, ultimo giorno di negoziazioni prima del vertice alla Fed di New York che decretò il sacrificio di Lehman Brothers. Al Mef si prepara una salsiccia di carta per la Patria, sotto dettatura Ue?

Insomma, se cartolarizzare significa di fatto impacchettare ciò che non si riesce a vendere sfuso, il timore di un ricorso obbligato a rischiose e terminali pratiche di finanza pubblica creativa è più che fondato. Non sentite nell’aria uno strano odore di déjà vu, una scritta game over che comincia a stagliarsi sullo sfondo? Parliamoci chiaro, tanto per riassumere una vicenda che rischia di sostanziarsi come il detonatore di un altro 2011. Tutti vogliono il loro nome ben in vista nel team che tenterà di resuscitare il morto. Nessuno, invece, intende assumersene la responsabilità, una volta che questi – tornato in vita – impazzisca e cominci a fare danni. Era il 20 settembre scorso, quando la Commissione banche fece il punto sulla questione crediti legati al superbonus. Prima del voto politico. E l’indicazione era chiara, fin troppo: signori, stante 30 miliardi già accettati a 45 in valutazione, la capienza fiscale sta terminando. Tradotto, il plafond che il sistema degli istituti di credito poteva garantire come monetizzazione di quella valuta parallela legata al mattone – già in procinto di andare fuori controllo – sta finendo. Cinque mesi fa. E, soprattutto, in pieno rush finale della campagna elettorale.

Tutti sapevano, quantomeno i diretti interessati e gli addetti ai lavori. Ma era noto da prima. Perché già il Governo Draghi aveva apertamente criticato il costo che il superbonus stava imponendo alle casse statali. Ma la natura da ammucchiata dell’esecutivo spinse palazzo Chigi a non toccare l’argomento. Non si intervenne per tempo. Volutamente. Tradotto, l’ex numero uno Bce avrebbe potuto – e dovuto – fare ciò che oggi ha fatto oggi il ministro Giorgetti. Non ne ha avuto il coraggio. Ricordiamocene, prima di continuare a erigergli simboliche statue equestri nelle piazze della nostalgia. Il Pil al 6%, lo stesso che ci garantì il titolo di Paese dell’anno da parte dell’Economist e che costò danni irreparabili da Twitter al tunnel carpale all’ex ministro Brunetta era frutto di doping. Quante volte l’ho scritto? E quanto tempo fa, indicando chiaramente il superbonus come steroide mortale? Un veleno a lenta somministrazione e ancor più lenta efficacia. Ma senza antidoto. Se non quello attuale, palesemente brutale e rischioso. Una chemio disperata. Perché i conti stessi dello Stato si basano su una contabilità da Fausto Tonna, tra iscrizioni a bilancio e preventivi lisergici. Si rischia un terzo del Pil, potenzialmente.

Il consuntivo? Nessuno vuole intestarselo. Perché ora inizia il caos. Nel pieno di un processo di deleverage del nostro debito da parte della Bce e con il rischio di ulteriori rialzi dei tassi. Parliamoci chiaro, il Governo ha detto stop perché siamo già alle prese con una bolla finanziaria in seno ai conti pubblici. I 110 miliardi di crediti legati a 2 anni e mezzo di superbonus sono, di fatto, una valuta parallela che incide sulla base monetaria del Paese. Chiamiamola Brickcoin o Homecoin, come volete. Ma tale è. Valuta. Che ora non può più essere incassata, fuori corso come la lira. Perché le banche hanno detto stop. Ma – in realtà – lo avevano già fatto a settembre. Quando resero noto il pressoché raggiungimento del plafond massimo. Nessuno volle volontariamente e dolosamente farci caso. Basti leggere le dichiarazioni bipartisan dei politici in quegli ultimi, febbrili giorni di campagna elettorale. Trovare qualcuno che volesse chiamarsi fuori dal team di potenziali rianimatori del mostro era impossibile, il protagonismo impazzava. Oggi nessuno pare essere mai entrato in laboratorio. Molti negano addirittura di aver mai indossato un camice. Ma il danno è fatto. E Bruxelles già attende sulla sponda del fiume. Come confermato da Paolo Gentiloni.

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