La “faida” tra il Presidente americano Trump e il governatore della Federal Reserve Powell ci ha regalato una nuova puntata anche questa settimana. È una serie che ci accompagnerà per molti mesi e quindi è il caso di metterla all’interno della giusta cornice. Trump mercoledì sera, con il solito giro di parole, ha scelto Twitter per esprimere il proprio pensiero sull’operato di Powell: “La gente è molto delusa da Powell e dalla Federal Reserve. La Fed sta sbagliando dall’inizio, troppo veloce, troppo lenta. Ha perfino ristretto all’inizio”… “Il dollaro e i tassi stanno facendo male alle nostre imprese. Dovremmo avere interessi più bassi di quella della Germania.”… “La Cina non è il nostro problema, ma la Federal Reserve”.



Ora, è chiaro a tutti che in questo contesto in cui tutte le macro aree del globo tentano di competere anche con il cambio, alla faccia delle scorciatoie che ci dava la lira, avere il dollaro praticamente ai massimi degli ultimi venti anni contro le altre valute non è esattamente in cima alla lista di alcun politico. Dopo il ciclo espansivo più lungo di sempre, quello iniziato dal 2008, che non ha guarito gli squilibri finanziari, oggi si cerca di capire chi, come e quando pagherà il conto. Nessun politico vuole rimanere con il cerino in mano proprio durante la campagna elettorale. Da ultimo, giusto o sbagliato che sia, nessun politico americano vorrebbe pagare il prezzo di un riequilibrio inevitabile ma doloroso e costoso dei rapporti con la Cina.



Qua vorremmo aprire una parentesi. L’America non può pensare di competere efficacemente con la Cina perpetuando lo schema degli ultimi trent’anni; una rottura è necessaria se non si vuole che la Cina prenda il sopravvento. Oltre tutto l’America è già in ritardo e deve rincorrere il competitor asiatico sulla supremazia nei settori chiave. Nello schema attuale la “cinesizzazione” del mondo alla fine arriverebbe anche agli Stati Uniti.

Possiamo fare finta che Trump sia solo un rozzo, stupido sovranista che non è in grado di capire le ragioni dell’economia globale. È una possibilità, ma dovremmo considerarne, per completezza, almeno un’altra. Il rallentamento dell’economia americana con il PMI di Chicago uscito giovedì che segna il peggior calo degli ultimi 39 anni significa che la “rust belt”, decisiva nelle elezioni del 2016, verrà colpita dalla crisi ben prima delle elezioni presidenziali del 2020. E non c’è niente che oggi si possa fare per evitarlo. Siamo già al dopo e cioè alla costruzione di una narrazione che indichi responsabilità precise. Insomma, non è colpa di Trump, arrivato con mercati finanziari con il fiatone, un’economia messa molto peggio di quella che dicevano gli indici e un equilibrio finanziario con la Cina insostenibile per le ambizioni americane. È colpa della Fed, di Powell e di certo non di Trump che anzi ha fatto tutto il possibile. Quindi, è il caso di ripetere questa narrazione a ogni occasione.



Non importa se sia vero o no e capirlo non è certo lo scopo di questo articolo. Far passare questa narrazione è uno degli elementi chiave, se non quello più importante, della campagna elettorale dell’anno prossimo.