Ultimo appuntamento della settimana, più breve dei precedenti vista anche la mole di avvenimenti che ha caratterizzato i sette giorni che vanno a concludersi. Quasi uno spillo. E questo ago vorrei che servisse a dare la scossa a muscoli e nervi di Christine Lagarde, la quale giovedì scorso – dopo aver passato gli ultimi quindici giorni a “pettinare le bambole”, come si dice a Milano, riguardo agenda green e discussione sul tasso obiettivo dell’inflazione – ha dovuto ammettere che il coronavirus rischia di tramutarsi in una seria criticità per la crescita europea. Ben svegliata. Mentre Pboc e Fed mettono già in campo l’artiglieria pesante e non lesinano magheggi, vedi la silenziosa e continua sovra-iscrizione alle aste term e repo della Federal Reserve (utilizzata in queste ore per tamponare gli eccessi speculativi di Wall Street stile Tesla), la Bce cosa sta facendo? Sonnecchia e guarda con malcelato disturbo quanto le accade intorno.
Forse, al netto del mio spillo, qualcosa deve però aver turbato i sonni dei regolatori europei, nella giornata di ieri: la produzione industriale tedesca a dicembre si è letteralmente schiantata al suolo, -3,5% contro il +1,2% di novembre e le attese per una conferma di quel rimbalzo. Siamo alla peggior lettura degli ultimi dieci anni, qualcosa che in termini tendenziali si traduce in un -6,8% rispetto al dato del dicembre 2018. Profondo rosso. Con l’aggravante della distruzione totale del germoglio di speranza che si era appunto palesato in novembre: come vi dicevo nel mio primo articolo di critica a Christine Lagarde, era all’epoca che occorreva sostenere al massimo la ripresa attraverso un aumento calibrato degli acquisti di bond corporate nella riunione del board di gennaio, al fine di garantire alle aziende in parziale tentativo di ripresa un grado di solidità creditizia che si traducesse in investimenti. Ora è tardi.
È tardi perché dalla metà di gennaio abbiamo a che fare con il coronavirus e il suo output fall-out globale, con fabbriche chiuse e consegne ritardate. Oltre che spese per consumi personali destinate a precipitare nelle aree più sensibili del pianeta. Esattamente come per la Cina, la quale ha già di fatto anticipato un dato del Pil per il primo trimestre al di sotto delle attese e della soglia psicologica del 6%. E ora la Germania dovrà fare i conti con una doccia fredda produttiva che non si attendeva. Nemmeno a dirlo, stante anche le chiusure di stabilimenti già annunciate in massa, sarà il settore automobilistico a patire maggiormente. E tutti quanti sappiamo che se il comparto automotive tedesco piange, i subfornitori italiani di componentistica certamente non hanno voglia di ridere. Affatto. Il tutto in un contesto di Paese, il nostro, economicamente fermo, come hanno confermato i più recenti dati dell’Istat.
E ora, cosa si fa? Il problema è duplice. Da un lato abbiamo una Bce in mano a gente che non ha la minima idea di come si gestisca una crisi, basti vedere come il Fmi abbia “risolto” i casi Grecia e Argentina sotto la guida di Christine Lagarde, e dall’altro un governo del Paese che sta frantumandosi sul nodo della prescrizione. Di fatto, si accoltellano per decidere il colore della moquette di una casa che sta andando a fuoco. Spero che gli elettori se ne ricordino, quando arriverà il giorno. Perché qui siamo davvero all’irresponsabilità totale. Ma si sa, in questo Paese chi governa guarda soltanto a due indicatori economici: gli occupati, spesso e volentieri non prendendosi nemmeno il disturbo di guardare il dato disaggregato, e lo spread. Punto. Anzi, qualcuno ogni tanto gioca la carta trumpiana del Ftse Mib che ha garantito un 2019 da record per chi aveva scommesso sulla Borsa.
Il tema della giustizia è certamente di fondamentale importanza per un Paese civile e sviluppato e, altrettanto con chiarezza, occorre dire che è strettamente connesso ai destini economici di una nazione, non fosse altro per le garanzie che le aziende chiedono al sistema rispetto ai propri obblighi prima di investirci denaro e impegno. Però, signori, qui non siamo di fronte a un dibattito, anche feroce, su come rendere la macchina dei tribunali meno kafkiana per chi decide di aprire un’azienda, qui siamo allo scontro tutto ideologico fra giustizialismo giacobino e garantismo un po’ peloso e donabbondiano. Di fatto, un proxy dell’incompatibilità ontologca fra due componenti di governo. In mezzo, stritolati come in una morsa, i pochi che vogliono davvero riformare, in punta di necessità e realismo. Come al solito.
Qui però la partita si fa pesante. Perché se è vero, come scrivevo nel mio articolo di ieri, che l’emergenza sanitaria ha garantito alla Cina l’alibi per tornare a politiche dichiaratamente espansive e di stimolo, questo “regalo” non è in realtà tale. E non è gratis. Per un Dragone in modalità Qe, occorre pagare un prezzo. Salato e pressoché immediato, come mostra il dato prospettico dell’industria tedesca, relativo al mese di dicembre, quando ancora l’allarme era noto solo alle autorità cinesi e al povero medico che lo diffuse, inascoltato e che oggi ha pagato con la vita il suo coraggio. Cosa dobbiamo attenderci dai dati di gennaio, quando il mondo ha dovuto giocoforza sprangarsi in casa? Guardate questi grafici, i quali parlano da soli e ci dipingono a tinte tanto fosche quanto paradossalmente squillanti, il grado di follia che sta pervadendo il mondo: il dato del commercio globale, così possiamo semplicisticamente definire il proxy offertoci dal Baltic, è ai minimi storici assoluti, roba da grande depressione. Gli indici di Borsa, invece, festeggiano come se fosse Natale tutti i giorni.
Cosa c’è che non va, al netto dei magheggi stile buybacks sistematici e doping dei multipli di utile per azione, come mostra il secondo grafico relativo alla performance del Dow Jones? Che tutto quell’entusiasmo della linea gialla è garantito proprio dalla rotta da precipizio di quella bianca. Anzi, dal messaggio che implicitamente quest’ultima rimanda al mondo: tutto sta andando a rotoli, ottime notizie. Perché le Banche centrali dovranno fare sempre di più. E in maniera sempre più coordinata. Insomma, si torna al post-2009. Un periodo d’oro per chi specula, un disastro per chi fino a ieri credeva alla retorica del mondo che scoppia di salute, poiché trainato da un’America da nuova golden age economica. Un’epoca d’oro garantita da 80-100 miliardi al giorno di liquidità della Fed per non far grippare il sistema e che, comunque, l’altro giorno – in perfetta corrispondenza con il bel discorso trionfalista di Trump sullo Stato dell’Unione – vedeva una grande catena di prestigio come Macy’s chiudere altri 28 punti vendita – fra cui un iconico Bloomingdale’s – negli Usa.
Signori, siamo al punto di partenza. Peccato che, nel frattempo, l’indebitamento sia cresciuto a dismisura, l’esposizione a leva del sistema sia a livelli di picco mai visti nemmeno nel 1999 o nel 2007 e che le Banche centrali abbiano già messo in campo buona parte dei loro arsenali. E noi, in una situazione simile, possiamo permetterci il lusso di una Bce che perde tempo con le agende green e la revisione dell’obiettivo inflazionistico del 2%? Io non credo.
P.S.: Attenzione a quello che, incautamente, viene dipinto come un misunderstanding fra istituzioni, frutto della concitazione e della confusione emergenziale del momento. Annunciando attraverso il proprio ministero degli Esteri come l’Italia fosse pronta a riaprire alcune tratte aeree dirette verso la Cina, Pechino non ha peccato di ottimismo o pressappochismo: ha bensì chiesto alla componente grillina di governo, quella che ha spinto e rivendicato la firma del memorandum sulla Nuova Via della Seta, la “prova d’amore”. Respinta sdegnosamente al mittente dalla Farnesina, ministero guidato da quello che fino a pochi giorni fa era il capo politico di M5S e che per settimane ha venduto al mondo come l’accordo del secolo l’aver ottenuto dai cinesi l’acquisto di qualche cassetta di arance siciliane. Attenzione alla reazione della Cina, temo destinata ad arrivare quando il timing per noi sarà più doloroso. Perché, come diceva Mao, non importa che il gatto sia bianco o nero, basta che prenda i topi. E noi, in qualità di gatto in seno all’Ue, ci siamo appena andati a nascondere, lasciando campo libero alle incursioni dei ratti. Temo che la pagheremo. E cara.