Non starò a fare previsioni. Più che altro, perché è inutile. Oggi, mentre state leggendo queste righe, potrà già essere accaduto di tutto. La delegazione cinese potrebbe avere lasciato Washington, ribaltando il tavolo delle trattative. Potremmo invece essere di fronte al più clamoroso degli epiloghi, con i flash della photo opportunity a illuminare il più insperato degli accordi a tempo di record. Oppure ancora, potremmo essere al punto in cui siamo ora: la farsa. Perché capite che è tutto una farsa, una colossale messa in scena comoda per entrambi i soggetti al fine di prendere tempo e garantirsi un alibi per continuare a stampare, monetizzare debito e calciare in avanti il barattolo del deficit strutturale. Sperando, forse, nel più laico e impossibile dei miracoli. Ovvero, che quel debito scompaia per magia.
Sapete com’è nata l’intera escalation fra Usa e Cina? Stando alla ricostruzione fatta dalla Reuters – e finora non smentita nemmeno da fonte cinese – il tutto sarebbe maturato sabato scorso, quando i diplomatici statunitensi avevano letto le 150 pagine di memorandum allo studio fra i due Paesi fatte recapitare il giorno prima via cable diplomatico da Pechino. Su 150 pagine, ben 150 contemplavano correzioni o editing. Insomma, non c’era accordo su nulla. Anzi, Pechino rigettava tutte le richieste statunitensi. Quasi scientemente. Un giorno per decidere come reagire e poi, domenica scorsa, il famoso tweet di Donald Trump che alzava i toni e annunciava l’aumento dei dazi dal 10% al 25% su un controvalore di 200 miliardi di beni cinesi importati.
Bene, sapete in due giorni di contrattazioni quanto è costato quel tweet alla capitalizzazione globale del mercato equity? Qualcosa come 1,36 triliardi di dollari di market cap bruciato solo nelle sedute di lunedì e martedì, ogni parola di quel tweet è costata 13 miliardi di dollari. Poi, l’escalation che stiamo vivendo. La Cina conferma comunque la presenza dei suoi sherpa a Washington nel fine settimana appena iniziato, Trump che prima nega ogni possibile accordo e poi fa limare le perdite a Wall Street parlando di “un’alternativa possibile”, i dazi innalzati alla mezzanotte di venerdì, la minaccia cinese di ritorsione (patetica, visto lo squilibrio di quanto importa dagli Usa e stante il fatto che il segnale lo aveva già mandato disertando mercoledì l’asta di Treasuries, come vi ho detto nel mio articolo di ieri) e l’inizio ufficiale della sciarada. Che ripeto, non so e non mi interessa come andrà a finire. Perché ciò che conta è come si è arrivati a questo punto e per quale motivo: come andrà a finire, è paradossalmente ininfluente.
Dunque, presa per buona la ricostruzione della Reuters, dobbiamo pensare che la Cina abbia volutamente cercato l’incidente controllato, altrimenti solo un pazzo rigetta del tutto le richieste della controparte, dovendo sedersi al tavolo con lui pochi giorni dopo. Quantomeno, un po’ di diplomazia. Arte in cui i cinesi sono millenari maestri, d’altronde. Mettiamo però in fila qualche dato che la grande stampa si guarda bene dal rendere noto.
Primo, giovedì pomeriggio, quando si faceva il conto alla rovescia rispetto all’entrata in vigore degli aumenti tariffari, dalla Cina arrivava il dato relativo alla fornitura di liquidità e, più in generale, del Total social financing relativo al mese di aprile. Un dato importante, non foss’altro per l’andamento da jo-jo che quell’indicatore aveva avuto da inizio anno. A gennaio iniezione monstre da 850 miliardi di dollari di controvalore in nuovi prestiti in yuan, poi il calo netto a febbraio, il maggiore da quando vengono tracciate le serie storiche, mentre a marzo nuovo aumento per altri 250 miliardi di dollari di controvalore. E ora? Nuovo calo. Sensibile, anche.
Proprio in contemporanea perfetta con l’arrivo a Washington del vice-premier, Liu He, per gestire le trattative (se vuoi rompere davvero, mandi uno sherpa di livello, non scomodi la terza carica politica del Paese), Pechino rendeva noto che i nuovi prestiti in yuan erano pari a 1,020 triliardi, ben al di sotto delle attese medie di 1,6 triliardi e un bel -13,5% su base annua. Di più, il dato del Total social financing – il quale contempla anche la parte più presentabile del sistema bancario ombra – scendeva a 1,360 triliardi, al di sotto delle attese di 1,650 e ben al di sotto dei 2,860 di marzo. Insomma, ennesimo stop-and-go nella fornitura di liquidità. Tutto da interpretare, ovviamente.
La Cina si è forse resa conto che la sua economia sta meglio del previsto e ha limitato l’uso delle presse da stampa? Oppure trattasi di segnale in codice, poiché il mondo intero sa che, proprio attraverso il volano del commercio intercontinentale e della finanziarizzazione garantita dalla Borsa, quei nuovi prestiti in yuan si tramutano magicamente prima in yuan offshore e poi in dollari, il famoso impulso creditizio globale? Vai a saperlo, sono cinesi: la dissimulazione è la loro specialità, Sun Tzu lo insegna. “Tutta la guerra si basa sull’inganno”, scriveva. Ma a tradire la natura da incidente controllato di quanto sta accadendo, ci pensano questi due grafici, dai quali si evince come qualcuno si attendesse l’escalation. Anzi, forse ne stesse preparando la strada.
Prima infatti delle rinnovate tensioni con Washington, la Borsa cinese era in calo costante da sei sessioni di fila. La serie, guarda caso e nonostante l’introduzione degli aumenti tariffari, si è conclusa ieri, con tutti gli indici del Dragone in positivo, dopo 11 sedute di fila in rosso. Che combinazione, proprio nel giorno del formale armageddon! Bene, cosa ha innescato il tweet di Trump? Lo mostrano appunto i grafici. Il fatto che nell’arco della settimana che si conclude oggi gli investitori esteri abbiano venduto una media di 4,4 miliardi di yuan (646 milioni di dollari) di controvalore di titoli azionari cinesi al giorno attraverso i loro canali di trading con Hong Kong, il dato peggiore da quando Shenzhen ha aperto la sua connessione internazionale a fine 2016. Ma il secondo grafico ci dice che quanto accaduto nell’ultima settimana è stata soltanto l’escalation voluta e preparata di un trend che è proseguito appunto per tutto il mese di aprile, il quale ha registrato vendite nette per 18 miliardi di yuan, il record a livello mensile.
Insomma, in un solo colpo si è oscurato il trend negativo di un mercato in bolla, venduto ai gonzi del parco buoi interno l’alibi degli stranieri che scappano via a causa delle tariffe degli americani brutti e cattivi e fatto respirare un po’ gli indici in sovra-valutazione strutturale. Ora, ripartendo da nuovi minimi e con l’alibi ulteriore di una debolezza che richiederà, nel mese di maggio, nuove iniezioni di capitali freschi nel sistema per sostenerne la ripresa, prepariamoci a un bel mini-rally di rimbalzo. E, soprattutto, a un bel piano di incentivi statali – roba grossa – per cercare di rianimare almeno la domanda interna. E avanti così, fino al prossimo jo-jo, con l’opinione pubblica plaudente.
E gli Usa, cosa ci guadagnano? La stessa cosa. Una purgata salutare agli indici, tanto la mazzata l’hanno presa il parco buoi e qualche corporations in piena attività di buybacks, la quale però ha spalle larghe e un bell’incentivo fiscale dalla Casa Bianca per non dolersi troppo di qualche sessione in negativo. Ma, soprattutto, un segnale chiaro alla Fed: se la situazione globale può precipitare dalla sera alla mattina, solo con un tweet, vista la delicatezza del quadro macro, come si può solo pensare di alzare i tassi? Anzi, visto che navighiamo in acqua agitate e l’inflazione è all’1,6%, magari un bel taglio precauzionale ci sta tutto, cosa ne dite? Tutti ci guadagnano.
Anzi no, qualcuno ci perde. L’Europa, i cui dati di export cominciando davvero a preoccupare. E se la crisi valutaria turca, ormai alle soglie del redde rationem, si tramuterà in instabilità su larga scala – visto anche il voto suppletivo a Istanbul previsto per il 23 giugno prossimo -, attenzione al tracollo totale delle esportazioni tedesche, le quali dipendono da Ankara più di quanto non lo facciano da Parigi o Roma, partner commerciali storici. E temo che quel momento di massima tensione, sia in lavorazione. E potrebbe arrivare sui nostri schermi e sulle prime pagine dei giornali proprio a ridosso del weekend elettorale di fine mese.
Usa e Cina sono dei wrestlers che fingono di picchiarsi, ma, alla fine, pensano solo all’incasso garantito dalla loro pantomima. A farsi male sono altri. Noi, ad esempio.