L’indice manifatturiero americano di agosto, pubblicato ieri, è sceso ai minimi dal 2009, al di sotto di tutte le previsioni. È l’ultima economia in ordine di tempo a mandare segnali inquietanti. I “mercati” hanno reagito con un ribasso del dollaro, una discesa del rendimento del decennale americano e spedendo le borse in rosso. Trump ha immediatamente twittato tutto il proprio disappunto per la Fed, rea di essere stata a guardare mentre il dollaro saliva ai massimi e di non aver abbassato abbastanza il costo del denaro.
Il rallentamento dell’economia americana è un problema per Trump perché se questo fosse il trend la crisi in America arriverebbe a ridosso della campagna elettorale per le presidenziali del 2020 dopo essersi manifestata da un paio di trimestri in Unione europea. Se si votasse domani, Trump rivincerebbe senza particolari patemi con la disoccupazione ai minimi di sempre e la borsa ai massimi. Sarebbe tutto più “complicato” se si fosse in recessione conclamata con i giornali che rimproverano la “guerra commerciale”. Per Trump l’economia è ovviamente una questione vitale.
Trump prova a scaricare le colpe sulla Fed e sul dollaro alto e sinceramente non si può biasimarlo completamente. Il dollar index è ai massimi di sempre e non ci risulta che si sia una singola economia che possa essere felice di entrare in una recessione con la valuta ai massimi. È abbastanza facile leggere il confronto tra Trump e la Fed alla luce delle presidenziali americane. Allo stesso modo si può leggere lo scontro in America sull’atteggiamento da avere con la Cina. Lo status quo è stato nei fatti estremamente favorevole per l’economia cinese e per una parte di quella europea.
Leggere la storia finanziaria ed economica degli ultimi dieci anni è interessante. L’Europa ha avuto dopo e durante ogni crisi una forte o fortissima svalutazione della sua moneta che ne ha favorito l’economia. Nell’estate del 2008 il cambio euro dollaro era a 1.55 e alla fine del 2009 a 1.25. Nella primavera del 2011 il cambio era a 1.45 e un anno dopo a 1.20. Nella primavera del 2014 eravamo a 1.35 e all’inizio del 2015 si scendeva sotto 1.05. L’altro ieri si ritornava vicinissimi ai minimi degli ultimi 15 anni sotto quota 1.09. Le frontiere commerciali sono rimaste apertissime.
Oggi questa soluzione o questo grande aiuto è complicato. È difficile che gli Stati Uniti accettino un’altra svalutazione di queste proporzioni ed è difficile che gli squilibri dell’euro che sono agli atti da tempo vengano scaricati con l’austerity e la deflazione sulla periferia. Nessuno può escludere un esercito europeo che controlli le proteste nelle province ribelli ma è complicato. Le pressioni sulla Germania perché faccia spesa dopo anni passati ad accumulare surplus commerciali e fiscali fuori da qualsiasi ragionevolezza sono fortissime, ma per il momento la Germania non si piega. Lo attestano tante dichiarazioni uscite negli ultimissimi giorni. Per la Germania spendere dentro l’euro vuol dire legarsi all’euro e alle sue economie comprese quelle dei mediterranei.
La questione che si pone è quali spinte si propagheranno dentro l’Europa nel caso di una crisi a cui non è più possibile rispondere come nel 2009, come nel 2012 e come nel 2015. I termini del dibattito politico americano tra globalisti e sovranisti sono tutto sommato leggibili. Si parla di meno dell’Europa, ma è una sottovalutazione della questione. In particolare, sarebbe interessante una discussione su quale sia il piano B della Germania che si rifiuta di fare spesa per rilanciare la domanda dentro l’euro. Se ci sia la convinzione che tutto si risolva come negli ultimi dieci anni sia nei rapporti con i Paesi extraeuropei, sia con i membri riottosi dell’euro, lisciati a colpi di “spread” e austerity, oppure se ci sia il rifiuto di rimanere dentro un progetto che non si controlla più, costi quel che costi.