Viviamo in un mondo folle. E nemmeno ce ne accorgiamo. Spesso per mancanza di informazione seria, spesso perché siamo – più o meno volontariamente – parte di quello stesso sistema a tal punto da non riuscire nemmeno più a capire cosa stia accadendo, a coglierne i cortocircuiti. Siamo dei bipolari che dimenticano troppo spesso la pastiglia del mattino, quella che riequilibra il tutto: ci lamentiamo del “potere” che inganna il popolo, votando in massa per qualunquisti senza prospettiva e contemporaneamente siamo in prima fila per assistere alla proiezione della nostra presa in giro, con tanto di pop-corn.



Prendiamo un caso molto “pop”, per una volta: WeWork e il suo salvataggio, avvenuto di fatto martedì attraverso l’accordo con il primo investitore, la holding giapponese Softbank, preferita al secondo “cavaliere bianco” presentatosi all’appello, JP Morgan. Breve riassunto. WeWork è un’azienda di co-working fondata a New York nel 2010 da Adam Neumann e Miguel McKelvey: due anni prima, i due avevano aperto a Brooklyn uno spazio professionale condiviso dove chiunque, pagando una quota, poteva andare a lavorare. Il co-working, appunto. Lo vendettero e con il ricavato fondarono WeWork, che ebbe una prima postazione nel quartiere à la page e multietnico di Soho, sempre a New York. Il timing fu perfetto. Il fallout della crisi del 2008-2009 era ancora pesante nell’aria e il lavoro da casa era sempre più comune non solo tra i freelance e i liberi professionisti, ma anche tra i dipendenti delle grandi aziende, le quali preferivano risparmiare sugli uffici e sugli affitti, quando potevano. WeWork era la risposta.



Grazie all’intuizione, si ingrandì rapidamente e a sua favore giocarono anche gli affitti relativamente bassi, grossi investimenti di capitale e il meccanismo apparentemente conveniente su cui si fondava: gli spazi comuni, ospitando più persone, sono più redditizi di un singolo ufficio. Inoltre, richiedono quote più basse attirando più clienti. Insomma, il classico successone, l’azienda “unicorno” che volava nelle valutazioni. Un altro sogno americano, dopo il garage di Steve Jobs dove nacque dal nulla l’impero Apple.

A gennaio di quest’anno, dopo un investimento da 2 miliardi di dollari da parte di Softbank (primo shareholder, con un totale di 10,5 miliardi di dollari), WeWork era stata valutata qualcosa come 47 miliardi di dollari. Detto fatto, il 14 agosto scorso WeWork ha presentato i documenti necessari per quotarsi in Borsa, rendendo noti i suoi dati finanziari e rivelando però al mercato il suo segreto di Pulcinella: grosse perdite e successi finanziari inferiori a quanto si pensasse, visto che quel modello apparentemente vincente bruciava più capitale di quanto ne generasse. Cash-flow in continuo calo, costi operativi alti. Un sòla, come direbbero a Roma. Il resto è storia recente, sintetizzata magnificamente in questo grafico: dal 14 agosto all’altro giorno, quando Softbank l’ha di fatto “salvata” dal default con un intervento totale di bailout da 9,5 miliardi di dollari (cifra che garantirà al conglomerato nipponico il controllo dell’80% della società), WeWork e il suo management sono riusciti nel miracolo di bruciare 37,5 miliardi di valutazione. Avete letto bene, 37,5 miliardi di dollari! In poco più di due mesi.



Il motivo? Semplice e duplice. Primo, i conti per l’Ipo in Borsa hanno svelato le magagne nascoste nei bilanci, mettendo in fuga tutti gli investitori che erano invischiati nell’operazione a vario titolo, Goldman Sachs in testa. Secondo, il collocamento in Borsa è stato prima rimandato e poi sospeso a tempo indeterminato: nell’arco di un weekend, letteralmente, WeWork è passata dall’approdo a Wall Street fra squilli di trombe alla stringente necessità di trovare denaro fresco, poiché quello in cassa sarebbe stato sufficiente per garantire operatività solo fino a metà novembre. Poi, default. Perché dall’Ipo, Adam Neumann pensava di raccogliere attorno ai 4 miliardi di finanziamenti, sufficienti a mandare avanti ancora per un po’ il suo schema Ponzi da loft in centro. Così non è andata, invece.

Direte voi: comunque sia, sono salvi. Certo, avendo bruciato 37,5 miliardi di valutazione (fantasiosa), dovendo ora comprimere i costi e tagliare posti di lavoro fra i circa 2mila dipendenti del gruppo e, soprattutto, facendosi carico di un danno reputazionale devastante. Perché a detta di molti analisti, la bandiera bianca issata da WeWork rispetto al suo collocamento ha rappresentato un vero e proprio scoperchiamento del vaso di Pandora del mondo fatato e molto mediatico degli “unicorni”, ovvero quelle aziende – spesso start-up del comparto tecnologico – che hanno valutazione superiore al miliardo di dollari. Insomma, il Re è nudo. La fuffa viene finalmente chiamata con il suo nome, ancorché imbellettata da formule e neologismi molto trendy come il co-working.

Sapete però qual è il vero problema, insito in questa storia? E’ triplice. Primo, la pessima lezione che arriva dalla vicenda professionale di Adam Neumann, il fondatore e guru. Il quale ora abbandonerà sì il board dell’azienda come richiesto da Softbank, ma lo farà con una buona uscita da circa 1,7 miliardi di dollari, visto che alle azioni per un controvalore di circa 1 miliardo di dollari che venderà a Softbank per il controllo del pacchetto, si sommeranno – oltre al resto – circa 185 milioni di dollari per la consulenza fornita alla holding giapponese. Consulenza? Su cosa, di grazia? Su come trasformare 1 dollaro in 20 centesimi, forse? Secondo, il rinvio dell’Ipo di WeWork e la brutta sorpresa che i conti hanno rappresentato per un mercato che fino al 13 agosto la valutava – da bravo cane di Pavlov della disinformazione finanziaria e mediatica – qualcosa come 47 miliardi e ora la vede salvata dal baratro con 9,5 di iniezione di capitale emergenziale, potrebbe aver psicologicamente bloccato molti dei futuri collocamenti attesi. I quali, come mostra questo grafico, nel 2018 hanno portato soltanto risultati negativi per chi ha investito: dal punto di vista della funzionalità del sistema, un bene che cerca gente venga spazzata via dal mercato. Dall’altro, però, una debolezza in più, poiché si rischia di vedere sparire la platea di investitori reali, quelli che credono davvero – e non solo per speculazione finanziaria – in aziende serie, con progetti innovativi e conti in ordine.

E se si bloccano i collocamenti e comincia la sfiducia di massa negli “unicorni”, il comparto tech – con le sue valutazioni folli basate solo su espansione dei multipli per azione e buybacks strutturali, come mostra questo grafico – rischia di essere il detonatore di una sell-off, sia equity che del debito, destinata poi a contagiare altri comparti a rischio per l’eccesso di fantasia e creatività nell’accountabilty, quello energetico in testa. Se poi partono i downgrades del rating da parte delle “Tre sorelle”, arrivederci e grazie dentro un gorgo di sfiducia auto-alimentante.

Terzo e ultimo, questo scempio da schema Ponzi generalizzato è figlio legittimo del clima da assenza di rischio creato dall’operatività delle Banche centrali, le quali con la loro politica di tassi a zero e denaro facile hanno permesso a chiunque di emettere debito per finanziarsi, tenendo in contemporanea i corsi azionari ai massimi grazie ai buybacks sistematici che le grandi corporations operano grazie al denaro raccolto. In un clima simile da festa patronale, ovviamente si tende a credere anche a follie come una valutazione da 47 miliardi di dollari per WeWork. Ed ecco i risultati, plasticamente sotto i nostri occhi. Ma questa follia non è limitata alla creatura di Neumann, è generalizzata, è l’unico driver reale di un mercato che tratta allo stesso modo un’azienda che compie ricerca farmaceutica sul contrasto a malattie mortali e una start-up di figli di papà che ti permette, ovunque tu sia nel mondo, di trovare una pizzeria che accetta coupon per i pagamenti.

Signori, per questo dico che la colpa di pazzie simile va equamente divisa fra il sistema (finanziario, mediatico e politico che non interviene, regolamentando gli eccessi) e noi, schiavi di un mondo che non sa più distinguere chi crea ricerca, valore, occupazione e utile da chi, alla fine, sta soltanto cercando una scorciatoia per concludere la propria vita lavorativa in pochi anni e ritirarsi, gonfio di milioni, alle Antille. Attenzione a quale direzione stiamo prendendo e a cosa chiamiamo progresso: a volte, c’è più futuro in un profilato metallico o in un tondino di ghisa che in mille apps. Certo, sono meno trendy. Ma pagano stipendi, tasse, fornitori, cedole e dividendi.

Forse, un po’ di sano luddismo intellettuale, culturale e morale potrebbe solo farci del bene, stante il livello di delirio in cui siamo ormai immersi fino al collo. Senza che nemmeno questo ci faccia più indignare. O, almeno, strabuzzare gli occhi.