Il pasticciaccio brutto di Wirecard, il gioellino tech tedesco specializzato in pagamenti elettronici, sta assumendo toni drammatici. E ben al di là dell’ambito meramente finanziario. Le autorità tedesche, infatti, starebbero per spiccare un mandato di arresto nei confronti dei due principali dirigenti del gruppo, Braun e Marsalek, per truffa, dopo che il primo (fondatore e Ceo) si è già visto costretto alle dimissioni con effetto immediato. E a un pesante conto da pagare, visto che a tempo di record Deutsche Bank ha emesso una margin call sulle azioni del gruppo che l’ex amministratore delegato aveva postato come collaterale sottostante su un margin loan da 150 milioni.



Braun deteneva il 7% di tutto il pacchetto Wirecard, di cui era il principale shareholder: con il titolo crollato del 72% in due giorni, il collaterale non copre più il valore del prestito. Quindi, mani al portafoglio. E ora, anche il rischio di manette ai polsi. Una storiaccia. Che, però, pare solo all’inizio.



Il titolo oggi ha perso un altro 44%, passando dai 25,82 euro della chiusura di venerdì agli attuali 14,44 euro. Un disastro, visto che solo nell’agosto del 2018 quell’azione valeva circa 190 euro. E con forte rischio di azzeramento totale, in perfetto stile da Enron bavarese. Al centro della disputa, 1,9 miliardi di ammanco nel saldo di cassa per utilizzo indebito di alcuni fondi asiatici nel più classico degli schema Ponzi di autofinanziamento. Quei conti erano infatti utilizzati da Wirecard per sostenersi nel periodo che va dal pagamento che garantisce al supermarket o al negozio – il quale avviene velocemente -, al momento in cui le carte di credito trasferiscono le somme all’azienda tedesca, lasso di tempo che invece può spesso durare settimane. Il problema è che quella cifra equivale a un quarto dei bilanci di Wirecard. Non a caso, il credit default swaps a cinque anni è passato dai 417 punti base di metà febbraio agli 8.593 di venerdì scorso. Fallimento garantito.



La versione ufficiale della vicenda vuole che tutto il caos scoppiato solo all’inizio della scorsa settimana fosse dovuto alla denuncia dei revisori contabili di Wirecard, Ernst&Young, i quali dopo settimane di rinvii nella presentazione dei conti, avrebbero rotto gli indugi diplomatici, parlando chiaramente di rischio frode. Confermato, di fatto, oggi dallo stesso Markus Braun, forse nel tentativo di evitare anche l’umiliazione totale dell’arresto: quei 2 miliardi circa potrebbero non esistere del tutto. Contabilità creativa. Ma a livelli tali da tramutare Fausto Tonna e il caso Parmalat in un gioco da ragazzi.

C’è però anche una versione ufficiosa che circola a mezza bocca negli ambienti finanziari, corroborata in prima istanza dalle denunce al riguardo contenute in due articoli pubblicati dal Financial Times fra ottobre e dicembre dello scorso anno. All’epoca, sia Wirecard che la BaFin, l’ente tedesco di controllo dei mercati, attaccarono duramente il quotidiano della City e il suo reporter, relegando le accuse – circostanziate – a un non sense diffamatorio. La realtà ci ha messo poco a palesarsi, invece. Ed eccoci arrivati al nodo attuale, alla storia nella storia. Il tracollo odierno del titolo, infatti, è stato innescato da un rumors rilanciato da Bloomberg in base al quale Bank of China, banca a controllo statale che rappresenta il quarto attore creditizio del Dragone, avrebbe incaricato un team di esperti di valutare l’ipotesi di ritirare gli 80 milioni di euro di linea di credito concessi a Wirecard, di fatto accelerando il processo di enronizzazione dell’azienda. Ma non basta, perché Bank of China è anche componente fondamentale del pool erogante un credito revolving verso Wirecard da 1,75 miliardi di euro, il quale potrebbe essere evocato anzitempo dal consorzio di istituti in caso di violazione o inadempienza nell’accordo.

Insomma, vista la reazione del titolo, attualmente il respiratore che ancora offre qualche flebile speranza all’ex gioiello tech tedesco è nella mani della Cina. E, casualmente, i conti incriminati sono asiatici. E, ancora più interessante, in quel Paese l’azienda sotto accusa avrebbe in corso circa 120 cause e sarebbe nel mirino degli inquirenti e dei controllori per attività al limite del lecito, già costate il record assoluto nel Paese in termini di multe per istigazione al gioco d’azzardo on-line e restrizioni di spesa verso il detentore del potere di firma, il già citato e giubilato Markus Braun, per “disonestà”.

Come mai, però, prima dell’odierno rumors fatto filtrare all’orecchio di Bloomberg, nessuno da Pechino aveva detta nulla, né vietato l’attività dell’azienda nel Paese o addirittura imponendone a chiusura e l’espulsione, limitandosi a comminare sanzioni pecuniarie? Come mai, quando lo scorso autunno-inverno, il Financial Times pubblicò quelle accuse così circostanziate, nessuno dalla Cina si alzò in piedi per confermarle? Strana casualità temporale. In un momento di riacuttizzarsi delle tensioni fra Usa e Cina e con l’Europa chiamata a prendere posizione, ad esempio sul 5G e sul ruolo di Huawei, il Paese azionista di maggioranza dell’Unione e apparentemente più aperturista verso Pechino, si trova nel pieno di un caso di truffa finanziaria da film e, soprattutto, di una rischiosa messa in discussione della propria credibilità di mercato, di controllo e istituzionale, dopo i casi delle emissioni di Volkswagen, le multe per i giochini di Deutsche Bank con i subprime e le dispute legali-sanitarie di Bayer dopo l’acquisizione record di Monsanto. Tutti e tre brutti precedenti, tutti e tre consumatisi nel rapporto fra Usa e Germania, essendo i reati in questione stati consumati su territorio statunitense.

Come dobbiamo leggere, quindi, il timing del caso Wirecard, di fatto solo apparentemente ascrivibile alla categoria dei fulmini a ciel sereno ma tenuto sottotraccia da tutti gli attori che ne erano potenzialmente a conoscenza, BaFin in testa? Cui prodest una Germania nella bufera, reputazionale prima che borsistica, proprio oggi? Alla Cina per costringerla a un’apertura ancora più palese verso il Dragone, stante il semestre di presidenza tedesca dell’Unione che si aprirà il 1 luglio? Oppure agli Usa, per la medesima ragione ma con finalità diametralmente opposta? Chi ha fatto scoprire al Financial Times le tracce che portarono alle prime denunce, quale era la latitudine della fonte? E ora, chi sta “montando la panna” di un caso già di per sé gravissimo, soprattutto per un Paese che fa del rigore e della serietà la sua bandiera?

Giova chiederselo, anche per un’altra ragione. Contenuta in questo grafico, il quale mostra come sempre oggi nel corso delle contrattazioni il bond di Lufthansa con scadenza 2024 abbia perso oltre il 5% a livello di prezzo, a causa di un altro annuncio. Quello – sempre giunto tramite Bloomberg – del miliardario tedesco Heinz Hermann Thiele, principale azionista della linea aerea, il quale in vista del meeting informale di giovedì prossimo per l’approvazione del salvataggio statale da 9 miliardi, ha minacciato di bloccare tutto, spaventato dal rischio che l’intervento di bail-out possa portare a una diluizione azionaria che lo veda patire perdite sull’investimento e, soprattutto, a un ridimensinamento della sua influenza di primo azionista a vantaggio di uno Stato nell’inusuale versione da “cavaliere bianco”.

Se accadesse o quantomeno si sostanziasse un ritardo nell’operazione, proprio ora che il traffico aereo sta tentando di ripartire dal lockdown, il danno economico e a livello di quote di mercato per Lufthansa sarebbe enorme. Ma quello reputazionale e di autorevolezza per il governo Merkel ben peggiore. Tale, magari, da portare a un sommovimento tellurico nella componente Spd o, peggio, in quella dei falchi della Csu, già duramente contraria alle aperture della Cancelliera verso Recovery Fund e iperattivismo della Bce. Il tutto, appunto, a una settimana dall’inizio del semestre di presidenza Ue tedesco e a un mese e mezzo dalla deadline posta dalla Corte costituzionale di Karlsruhe per ottenere risposte dall’Eurotower sulla proporzionalità dei programmi di Qe. Chi vuole una Germania sotto attacco, divisa e debole come non mai, proprio ora? Qualunque siano il suo nome e indirizzo, sa come organizzare una strategia. Chapeau.

Ma attenzione, perché finora la filiale statunitense di Deutsche Bank ha strenuamente difeso le sue prerogative di tutela della privacy dei clienti rispetto alla richieste di carte da parte del Dipartimento della Giustizia, documenti che portano come nome dell’intestatario dei conti quello di Donald Trump, ai tempi del suo impegno imprenditoriale. Cambierà atteggiamento nei prossimi giorni, magari minacciando aperture verso quelle richieste in nome della trasparenza e degli stress test Fed del 30 giugno? Se così fosse, significa che a Berlino si sono fatti un’idea chiara dei mandanti. Oppure, puntano al tutto per tutto, in vista di una probabile resa dei conti finale in autunno.