Quando, nel dicembre 1975, Marenches vola in Arabia Saudita, è proprio il Capo dello Stato francese che redige per lui una sorta di lettera di credenziali: “Desidero inviarvi, tramite il mio amico conte de Marenches, in visita nel vostro paese, e di cui potete avere la massima fiducia, l’espressione della mia altissima considerazione personale”. Nei suoi Ricordi, Marenches fa risalire l’idea al primo shock petrolifero del 1973, quando il crollo delle economie occidentali rischiava di trascinare con sé quello del Medio Oriente.



Perché non riunire alcuni rappresentanti chiave del mondo musulmano e dell’Occidente per formare un fronte unito contro gli elementi più irresponsabili che potrebbero approfittare della crisi per provocare una conflittualità militare o diplomatica su scala globale? La realizzazione appare nei diari solo nel 1976: “Triangolo: Saud-Teheran-Il Cairo, scrive il 7 gennaio come preludio a un incontro con il presidente della Repubblica. Stato maggiore al Cairo, AM consigliere”. AM, cioè Alexandre de Marenches che ha già aggiunto l’Egitto alla coppia irano-saudita.



Ma il triangolo diventa rapidamente un quadrato perché il Marocco è integrato in quello che passerà alla storia come “Safari Club”, ispirato per alcuni al suo tropismo africano, per altri al nome dell’hotel dove si sarebbe tenuta la prima riunione dei cinque capi dei servizi segreti. Il giornalista egiziano Mohammed Heikal, ex consigliere e confidente di Nasser, è stato il primo a rivelarne l’esistenza negli anni ’80 grazie agli archivi dello scià che il nuovo regime iraniano gli ha permesso di consultare. Un documento del 1º settembre 1976 funge da dichiarazione di statuto.



Gli eventi recenti in Angola e in altre parti dell’Africa hanno dimostrato il ruolo del continente come teatro di guerre rivoluzionarie incoraggiate e condotte dall’URSS che utilizza individui o organizzazioni aderenti o controllate dall’ideologia marxista. La sede è fissata al Cairo con un segretariato e dipartimenti Operazioni e Pianificazione. La Francia, incaricata della sicurezza, non mancherà di allarmarsi quando il generale Nassiri vedrà rubarsi codici e frequenze radio durante il furto nel suo appartamento a Nizza. Nel libro Il segreto dei principi, Marenches fornisce una curiosa definizione del suo contributo ai leader dei paesi coinvolti: “Anche se il presidente della Francia è informato delle mie azioni, non agisco nell’ambito delle mie funzioni ufficiali di direttore generale del SDECE, ma piuttosto come un facilitatore privato la cui Realpolitik è ben nota a ciascuno di questi leader”.

Era più nel suo ruolo quando proponeva allo scià di migliorare la sua comunicazione? Un velo di mistero avvolge il Safari Club, che in realtà non è altro che l’affermazione di una cooperazione interservizi come può esistere in altri ambiti e in altre epoche. Nel 1982, un “Médi Club” vedrà la luce con Spagna, Italia, Marocco e Tunisia. Il principio è di facilitare lo scambio di informazioni, o anche di coordinare operazioni, ma su un tema comune, non per l’insieme delle attività dei servizi interessati. E poi, nel “Safari Club”, c’è “club”. Gli ufficiali dei servizi segreti amano le cooperazioni, ricorda l’ex capo del servizio alla DGSE Alain Chouet.

Secondo Chouet questa cooperazione offriva loro l’opportunità di viaggi a viso scoperto, soggiorni in hotel confortevoli, incontri amichevoli tra professionisti conclusi con pasti raffinati tra amici. I direttori generali dei servizi alleati si scambiavano congratulazioni reciproche, medaglie scintillanti, promesse di solidarietà eterna, impegni a condurre azioni coordinate mirabolanti e decisive. Sono momenti privilegiati in cui l’ufficiale dei servizi segreti ha l’impressione di essere un attore principale delle relazioni internazionali e della pace tra i popoli. A volte è vero.

I corridoi dei palazzi riservati per l’occasione colpiscono per una doppia incongruenza. Innanzitutto, l’assenza degli americani. Di fatto, il Safari appare come la stampella temporanea di una CIA dalle gambe spezzate dalla successione di colpi bassi subiti dalle amministrazioni e dai Congressi successivi, essi stessi spinti da una stampa infiammata. Se il dinamismo e la forza di convinzione di Marenches sono stati decisivi nella creazione del Club, la volontà concomitante di Henry Kissinger e George Bush di mettere in piedi un surrogato all’azione segreta degli Stati Uniti è stata fondamentale, particolarmente presso i sauditi, ma anche presso gli iraniani.

Basta notare che l’ambasciatore americano a Teheran dal 1973 non è altri che l’ex direttore della CIA Richard Helms. Assumendo la sua strategia di chiusura delle postazioni a Est per concentrarsi sul Sud, Marenches ha ragione di presentarsi come il comandante delle forze segrete del mondo libero in Africa, ma non deve far dimenticare il comandante supremo, gli Stati Uniti, per i quali il Safari rimane prima di tutto lo strumento che permette di continuare a colpire l’URSS senza il consenso dei parlamentari.

La seconda caratteristica evidente del Club è che è, tranne i francesi, interamente musulmano. Per un crociato come Marenches, come concepirlo allora che il conflitto tra i due grandi blocchi, prevalentemente cristiani, si è spostato su terre africane anch’esse poco conquistate dall’islam? La risposta è semplice: di fronte ai pericoli che minacciano l’Occidente, tutti i mezzi sono buoni. L’Arabia Saudita e l’Iran hanno molti soldi, il Marocco reti ineguagliabili in tutta l’Africa, l’Egitto piattaforme portuali e aeree idealmente posizionate: la salvezza della Francia vale bene un richiamo del muezzin. Tuttavia, è l’inizio di un ingranaggio che non ha finito di produrre i suoi effetti perversi quarant’anni dopo.

 

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