“La democrazia è il peggiore dei regimi possibili salvo tutti gli altri”. È uno dei detti memorabili di Winston Churchill: che resistette da solo a Hitler, per poi sconfiggerlo assieme agli Usa (la più antica democrazia del pianeta) e alla Russia, impero zarista divenuto dittatura sovietica. “Sir Winnie” diventò Premier britannico sotto i bombardamenti della Luftwaffe e per questo la Camera dei Comuni decise di sospendere la democrazia elettorale. I sudditi di Sua Maestà tornarono a votare solo nel 1945, a dieci anni dall’ultima consultazione. Le urne furono riattivate immediatamente dopo il Victory Day sulla Germania nazista e i britannici diedero il benservito al liberale Churchill. A Londra governò per sei anni il Labour, ma nel 1951 – a ricostruzione avviata e a Guerra fredda ormai iniziata – Churchill fu richiamato a Downing Street per quattro anni. Nel suo esilio democratico si dedicò alla passione di scrittore di storia, meritandosi poi nel 1953 il Nobel per la letteratura.



Quando Churchill morì, nel 1965, il primo a rendergli omaggio fu il Presidente francese Charles De Gaulle: il generale leader della “France Libre” che per cinque anni di guerra mondiale aveva resistito fuori dal suo Paese, invaso dai nazisti e trasformato in una repubblica-fantoccio. De Gaulle stesso, riconsegnato il Paese ai francesi, si appartò dopo una breve parentesi di Premier provvisorio. A Parigi la rinascita della democrazia parlamentare mal tollerava una figura carismatica e fondamentalmente autocratica come le General. De Gaulle assistette così dal suo buen retiro al sanguinoso collasso dell’impero coloniale francese, dall’Indocina all’Africa Occidentale, passando per la perdita del Canale di Suez.



Dopo una Quarta Repubblica rissosa e caratterizzata da ben 24 primi ministri, il Generale fu richiamato alla guida del paese nel 1958. Chiuse la crisi algerina e in cambio ottenne una riforma costituzionale che instaurò il semipresidenzialismo tuttora in vigore a Parigi. De Gaulle vinse nel 1965 le prime presidenziali (da posizioni di centrodestra, “golliste”), ma non riuscì a completare il suo mandato settennale. Il terremoto sociopolitico del 1968 – che ebbe Parigi come epicentro globale – travolse anche l’anziano statista. Alla fine del Maggio francese De Gaulle aveva esplorato la possibilità di una normalizzazione autoritaria della crisi, con l’intervento delle “sue” truppe d’occupazione al di là del confine tedesco. Ma non lo fece. E non si oppose, meno di un anno dopo, a un referendum istituzionale sulla riforma del Senato e delle autonomie locali. Aveva talmente chiaro che la consultazione sarebbe stata sulla sua stessa figura che preannunciò le sue dimissioni in caso di sconfitta. Perse – di stretta misura – e lasciò l’Eliseo nell’arco di ventiquattr’ore.



Emmanuel Macron – settimo successore di De Gaulle nella Quinta Repubblica – ha detto due sere fa ai francesi che non intende dimettersi prima della scadenza del suo mandato, nel 2027. Non ha detto loro altro – salvo che intende esercitare la sua prerogativa costituzionale di nominare un nuovo premier – dopo almeno quattro referendum recentissimi sui suoi sette anni di governo semipresidenzialista della Francia.

I primi tre giudizi democratici sono stati espressi a suffragio universale dagli elettori francesi nell’arco di quattro settimane: fra il 9 giugno (voto europeo) e il 7 luglio (secondo turno delle elezioni legislative anticipate chiamate dallo stesso presidente). Tutte e tre le consultazioni hanno decretato in modo inequivocabile la sfiducia dei francesi nel loro Presidente: per due volte eletto (2017 e 2022) con il consenso aperto di un quarto soltanto dell’elettorato. La sua forza politica – non un vero partito – è stata relegata addirittura in terza posizione all’euro-voto ed è oggi solo seconda all’Assemblea nazionale, dove la sinistra è tornata primo schieramento, pur dopo aver “donato” una parte dei parlamentari a Macron. Salvo poi venir relegata nuovamente all’opposizione.

L’ultimo no – formale e democratico – al macronismo è stato dichiarato nella sera di mercoledì in Parlamento: dove una maggioranza composta dalla sinistra compatta e dalla destra lepenista ha costretto alle dimissioni il Premier Michel Barnier. Quest’ultimo – esponente di un neogollismo ormai nettamente minoritario – era stato insediato dal Presidente in settembre dopo lunghi rinvii e sostanzialmente contro l’esito del voto legislativo.

Macron ha reagito accusando l’Assemblea di irresponsabilità e di fomentare disordine e divisione nel Paese. Ha additato la maggioranza dei parlamentari eletti appena cinque mesi fa di essere un “fronte anti-repubblicano”: nei fatti una forza eversiva. Ha prospettato una “legge finanziaria speciale” (par di capire un decreto emesso da un Governo tecnico) dopo che il Parlamento ha bocciato la manovra 2025 predisposta da Barnier, al fine di evitare al Paese un vuoto pericoloso sui mercati e inaccettabile in sede Ue.

Il Presidente francese ha fatto mostra – a parole – di un atteggiamento non troppo diverso da quello adottato in questi stessi giorni da Yoon Suk Yeol: Presidente della Sud Corea, altro Paese nominalmente democratico, caposaldo “occidentale” in Asia. Yoon ha dichiarato la legge marziale unilateralmente e a sorpresa: non diversamente da come Macron ha sciolto l’Assemblea nazionale “ad horas” dopo un voto europeo per lui catastrofico. A Seul il Parlamento ha però subito fermato il tentativo di golpe del Presidente, non prima tuttavia di un fallito assalto dell’esercito alla sede della sovranità democratica. Per ora Yoon sta rimanendo al suo posto – benché ne sia stato sollecitata la messa in stato d’accusa – presumibilmente per le pressioni degli Usa, preoccupati di ulteriori destabilizzazioni di un Paese strategico: diretto confinante con la Corea del Nord e dirimpettaio della Cina.

Oggi intanto Macron – con uno strappo al cerimoniale diplomatico – ha invitato a Parigi per la riapertura di Notre Dame Donald Trump, Presidente americano eletto ma non ancora in carica. Il Presidente rieletto alla Casa Bianca è quotidianamente sotto il fuoco dei “dem” sconfitti e dei grandi media d’Oltre Atlantico per le scelte sulla futura Amministrazione: molte delle quali giudicate eversive dell’ordine democratico. Ma il confronto politico-mediatico si è fatto più confuso dopo la la clamorosa decisione del Presidente uscente, Joe Biden, di concedere in extremis il perdono presidenziale al figlio Hunter: sotto inchiesta per possesso illegale di armi e illeciti fiscali; ma sostanzialmente sospettato di essere stato il veicolo di finanziamenti irregolari al padre, anzitutto da un oligarca ucraino. Biden – secondo indiscrezioni – starebbe intanto preparando una massiccia campagna di perdoni: con la motivazione di prevenire vendicative “persecuzioni giudiziarie” da parte di Trump. Il quale, peraltro, ancora in maggio, ha dovuto affrontare a New York un processo (per ipotesi di reato non politiche), intentato da un attorney (elettivo) noto per le sue posizioni di “dem radicale”.

P.S.: È in questo clima politico-culturale globale che in Italia si avvicina la scadenza centenaria del 3 gennaio. Un secolo fa il Premier Benito Mussolini si presentò davanti alla Camera rivendicando ogni “responsabilità storica, politica e morale” dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuto nel giugno precedente. L’opposizione – già sfrangiata dalla diserzione parlamentare nota come Aventino – non seppe reagire e Mussolini, con il tacito assenso della monarchia, varò immediatamente per decreto le normative “liberticide” che inaugurarono il regime fascista, ponendo fine a sessant’anni di Italia liberale. È prevedibile oggi la ripresa della narrazione standard rilanciata per il centenario della marcia su Roma (nei giorni del giuramento del Governo Meloni) e quindi pochi mesi fa nell’anniversario del delitto Matteotti. Ma distinguere fra “buoni” e “cattivi”, fra “promossi” e “bocciati” agli esami storici di democrazia sta diventando sempre meno facile e scontato.

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