La conosciamo la storia del pifferaio di Hamelin. Ripresa e resa celebre soprattutto dai Grimm, la fiaba narra di un suonatore di piffero che, su richiesta del borgomastro, libera la città di Hamelin dai ratti che l’avevano infestata. I ratti seguono il suono del piffero e precipitano nel fiume Weser, che scorre lì vicino, appena fuori dalle mura cittadine. Il borgomastro, però, si rifiuta di pagare quanto pattuito con il pifferaio e questi si vendica, incantando i bambini con la sua musica e portandoli via per sempre.
Si dice che dietro la fiaba ci sia qualcosa di storico: la peste, un’emigrazione di massa per lavoro o qualche altra tragedia. A me, che quest’estate viaggiavo per il nord della Germania, dopo la pubblicazione del mio libro sui Grimm è sembrato quasi un atto dovuto fermarmi ad Hamelin. Alla storia del pifferaio è dedicato molto spazio nel museo cittadino, ma, a parte alcuni suggestivi monumenti, nei tanti negozi di questa bella città della Bassa Sassonia è quasi impossibile trovare dei gadget, pupazzetti o caramelline, magari a forma di topo, che la ricordino. E non è che ai tedeschi manchi il senso del marketing sulle vicende e sui luoghi delle fiabe… Anzi. Nella vicina Brema la storia dei “musicanti”, lì ambientata, è sfruttata sino in fondo e con parecchio gusto, oltre che con profitto. Sembra quasi che la storia del pifferaio, presa un po’ troppo alla lettera, susciti un certo imbarazzo, vuoi per un animalismo fuori misura, vuoi per la questione dei bambini perduti.
Al di là della fiaba e dei suoi risvolti simbolici, questa sensazione di smarrimento di fronte ad elementi della storia culturale tedesca che precedono di molto le vicende tragiche del Novecento, è qualcosa che si ritrova di frequente in Germania e che costituisce uno dei tanti sintomi di disamore verso la propria identità nazionale.
Si tratta, anche in questo caso, di una forma esasperata di cedimento al politicamente corretto, che non è solo un linguaggio o una neo-lingua (secondo cui ci sono cose che si possono dire e altre no), ma una vera religione civile, e dunque un paradigma di convivenza sociale. Solo che nel caso della Germania c’è, in più, la chiara percezione di una nazione che non si ama, fatalmente incrociata con la tradizionale inclinazione germanica all’ubbidienza.
I media tedeschi, poi, lavorano alacremente come custodi di questa nuova religione civile, che lascia poco spazio a una riflessione equilibrata e libera da pifferai e borgomastri. Per esempio, Alternative für Deutschland è meno nazista di quanto la stampa progressista voglia far credere, nel senso che si tratta di un partito ampiamente “fluido”, senza una vera eredità ideologica alle spalle: prima ultraliberale (alla nascita, quando ebbe tra i suoi ispiratori Olaf Henkel, ex presidente di Confindustria tedesca), poi di una destra non definibile, ma sostanzialmente legata ai mal di pancia dell’elettorato rispetto all’immigrazione, alla crisi economica e, ora, a una politica estera appiattita sugli USA; domani, chissà. E non è un caso che il partito riscuota i suoi maggiori successi in quella che fu la Germania Est, ovvero nella parte di Germania che meno ha subito la “rieducazione” (Um-erziehung) in chiave liberal nordamericana. La Germania non si ama e fatica a guardare se stessa.
Era l’ormai lontano 2010 quando Thilo Sarrazin, economista e ministro, all’epoca esponente di spicco dei socialdemocratici tedeschi, pubblicava un saggio dal titolo significativo: Deutschland schafft sich ab (La Germania si autoliquida), che, dopo le iniziali polemiche contro l’autore, finì presto nel dimenticatoio delle idee portatrici di domande scomode. Eppure, al di là delle controversie sulla questione dell’immigrazione (tema peraltro ripreso, probabilmente in chiave elettorale, proprio dal cancelliere Scholz), Sarrazin, che da economista vedeva bene come già allora la Germania si stesse facendo male da sola, poneva con pari chiarezza la questione di che cosa significhi essere tedeschi oggi: “Credo che senza una sana autocoscienza del nostro essere nazione non potremo mai risolvere i nostri problemi sociali”.
Ora, dato e non concesso che il concetto di “nazione” sia davvero chiaro e ben definibile, quel che colpisce dell’affermazione di Sarrazin è che per lui, e per altri, alla Germania serva un’autocoscienza e che essa debba essere “sana”, cioè non gravata da insostenibili sensi di colpa o controproducenti rimozioni. Per dirla in maniera molto chiara: dagli orrori delle ideologie del secolo XX, nazionalsocialismo in testa, ci si distacca non quando si smettono di leggere i Grimm o Goethe, ma quando ci si concepisce nazione tra le nazioni, in termini paritetici e, dunque, lavorando per la pace, che è il bene supremo nella convivenza tra i popoli.
In effetti il successo di movimenti politici come AfD e BSW (il partito post-comunista da poco fondato da Sahra Wagenknecht) non si spiega solo come reazione alla questione immigratoria, ma anche perché l’intero establishment politico tedesco è oggi allineato e ubbidiente alle ragioni degli USA nel conflitto russo-ucraino, contro gli interessi dei tedeschi e, soprattutto, contro quelli della pace in Europa.
In piena Guerra fredda Bertolt Brecht ammoniva la Germania con un esempio tratto dalla storia antica: “La grande Cartagine condusse tre guerre. Era ancora potente dopo la prima, ancora abitabile dopo la seconda; dopo la terza non vi era più traccia di lei”. L’intento di Brecht era quello di dissociare completamente e per sempre l’idea di guerra da quella di Germania. Certo, oggi la Germania, come l’Italia priva di una vera sovranità, manda armi non per volontà propria, ma su ordine dei pifferai che hanno interesse alla guerra. Ma allora non potrebbe essere che la strada per una “sana autocoscienza” sia quella di una difesa incondizionata della pace? Non è un paradosso che ci si scandalizzi di una fiaba che narra di ratti annegati nella Weser e si rispediscano carri armati sul Don, come già avvenuto nell’Operazione Barbarossa? Anche perché il pifferaio magico, comunque lo si interpreti, non suona per il bene di chi si lascia guidare da lui, e i gorghi del fiume sono davvero molto vicini alla città e ai suoi bambini, cioè al suo futuro.
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