Il cambio di direzione a Repubblica – da Maurizio Molinari a Mauro Orfeo – ha avuto ovvio risalto: come del resto lo sciopero di due giorni del quotidiano che ne è parso la causa contingente. Un’attenzione più laterale e parziale hanno avuto le ragioni dell’agitazione: la contrarietà della redazione alla decisione e ai modi scelti dall’editore – e avallati dalla direzione – di dar rilievo sulle pagine e in un inserto speciale a Italian Tech Week.
Il clou di un “salone dell’innovazione digitale” svoltosi a Torino è stato d’altronde il faccia a faccia fra John Elkann – il patron di Exor e Stellantis, fino a quattro giorni fa anche presidente di Gedi, editrice di Repubblica – e Sam Altman, patron di OpenAI e guru globale assoluto dell’intelligenza artificiale. E a Torino i due hanno annunciato live un accordo strategico fra Gedi e OpenAI.
A quanto si è letto in un comunicato, OpenAI avrà accesso a tutti i contenuti prodotti da Gedi per sviluppare ChatGPT in cambio di una promozione del brand editoriale italiano fra le “fonti originali”. In attesa di dettagli, la Fnsi, il sindacato unico dei giornalisti italiani, si è subito mossa per avere chiarimenti: mostrandosi in fondo più interessata a questo che al contenzioso sulla copertura giornalistica del salone; o allo stesso cambio di direzione accompagnato dal passo indietro di un editore per definizione “non puro”, allorché il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sta insistendo sulla libertà d’informazione in Italia.
In una prospettiva internazionale, Gedi non è sola nel voler accelerare sulla direttrice dell’AI: anzi – come altri gruppi newsmedia europei è in ritardo. A battere la strada sulla nuova frontiera è naturale che siano da tempo i gruppi statunitensi, che stanno articolando due percorsi opzionali. Uno (privilegiato fra gli altri dal gruppo Murdoch, cui ora apparentemente Gedi si sta ispirando) è aperto ad accordi di mercato con OpenAI (che sta abbandonando la sua natura di soggetto not-for-profit) per partnership immaginate win win. Ma un secondo schieramento – capeggiato dal New York Times – incarna invece una volontà di resistenza all'”invasione” dell’IA. Quindi: no a qualsiasi ipotesi di cessione (o utilizzo “selvaggio”) del “catalogo” dei giornalisti del NYT e no all’utilizzo immediato e massiccio delle opportunità offerte dall’IA sui diversi canali di un grande quotidiano.
In questa logica, un giornale deve continuare a essere – almeno nella sua parte principale e decisiva – prodotto da giornalisti umani, non da computer “allenati” da giacimenti di giornalismo “arricchito” del passato. E i media – diversamente da quanto alle fine è avvenuto con Big Tech pre-IA – devono difendere il loro ruolo di provider di contenuti di qualità: anzitutto a monte (non accettando prezzi inevitabilmente “all’ingrosso” su un mercato in cui OpenAI si presenta come parte forte di fronte a una miriade di “venditori” più o meno piccoli e deboli). Ma la strategia è proposta con forze anche a valle: verso i lettori, supposti non solo componenti di un “mercato”, ma anche una “comunità civile” (di uno Stato), quindi preoccupati non solo della qualità del singolo acquisto di informazione, ma anche della salute complessiva di una democrazia garantita da una libertà di stampa professionalmente esercitata.
È su questo versante – detto nella sintesi più cruda – che le democrazie occidentali devono decidere se vogliono ancora giornalisti professionisti (non “social media manager” o “influencer”, eccetera) e quanti e a che retribuzioni. Resta d’altronde inevitabile che l’IA – portante nella transizione digitale – obblighi le aziende editoriali e i giornalisti a ristrutturare i propri business model: con investimenti che potrebbero necessitare di sussidi pubblici appropriati, ma anche importanti investimenti in capitale umano (anche da parte dei giornalisti su se stessi).
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