L’analisi storica dell’epoca di Brežnev e delle successive dinamiche geopolitiche dell’Unione Sovietica nel Medio Oriente, con particolare attenzione ai suoi rapporti con Egitto, Siria, e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), offre uno spunto fondamentale per comprendere le radici e le complessità dell’attuale conflitto tra Israele e la Palestina.
La strategia sovietica di sostenere movimenti e nazioni anti-imperialiste nel Terzo Mondo, inclusa la Palestina, rifletteva l’ambizione di estendere la propria sfera di influenza e contrapporsi all’egemonia occidentale, in particolare degli Stati Uniti, nella regione. Questo contesto storico, caratterizzato da alleanze mutevoli, strategie di distensione complesse e interventi diretti e indiretti nei conflitti regionali, ha lasciato un’eredità di tensioni e rivalità che persistono fino ad oggi.
Il sostegno dell’URSS all’OLP e il suo tentativo di navigare tra le dinamiche di potere del Medio Oriente si inseriscono in un quadro più ampio di interventi internazionali che hanno contribuito a plasmare l’attuale configurazione geopolitica della regione. La guerra attuale tra Israele e la Palestina non può essere vista isolatamente dalle sue radici storiche, che includono l’influenza delle superpotenze durante la Guerra Fredda e i loro tentativi di utilizzare il conflitto arabo-israeliano come teatro per la propria competizione globale. La relazione tra l’URSS e figure chiave come Yasser Arafat, così come il sostegno a regimi e movimenti nella regione, ha contribuito a delineare le alleanze e le ostilità che vediamo oggi.
In questo contesto, questo breve articolo funge da ponte tra il passato e il presente, mostrando come le azioni e le politiche di decenni fa continuino a influenzare la politica, la sicurezza e le relazioni internazionali nel Medio Oriente. La comprensione di questi legami storici è cruciale per analizzare l’attuale conflitto tra Israele e la Palestina, offrendo spunti per possibili vie di soluzione e per la comprensione degli interessi e delle motivazioni delle varie parti coinvolte. La continuità e le discontinuità delle politiche estere delle potenze coinvolte nel Medio Oriente sottolineano l’importanza di considerare la storia come una chiave di lettura essenziale per affrontare e risolvere i conflitti contemporanei.
L’epoca di Brežnev
Durante l’epoca di Brežnev (segretario generale del PCUS dal 1964 al 1982), e anche successivamente, l’Unione Sovietica interpretava la distensione non come un traguardo per superare la rivalità Est-Ovest, ma piuttosto come una transizione verso un tipo di competizione meno diretta. Persisteva nell’idea di considerare il blocco sovietico come un baluardo socialista assediato dall’imperialismo occidentale, in alleanza con la Cina. Per sfondare questo assedio, era essenziale per l’URSS rafforzare la propria influenza nel Terzo Mondo e i rapporti con i Paesi non allineati. Tuttavia, in Egitto, che un decennio prima era visto come cruciale per l’influenza sovietica in Medio Oriente, gli anni 70 segnarono un periodo di declino. La guerra del Kippur del 1973 iniziò con buoni presagi per l’Egitto, ma si concluse in modo deludente. L’URSS si rese conto che la salvezza di Egitto e Siria da un disastro totale non fu merito delle armi sovietiche, quanto piuttosto della pressione esercitata dagli Stati Uniti su Israele per terminare il conflitto. Tale consapevolezza rafforzò all’interno del Cremlino la percezione che ulteriori conflitti in Medio Oriente avrebbero danneggiato gli interessi sovietici, aumentando il sospetto che Sadat privilegiasse un avvicinamento all’Occidente per la risoluzione non solo della questione arabo-israeliana, ma anche dei problemi economici egiziani. La rottura unilaterale del trattato di amicizia sovietico-egiziano da parte di Sadat nel marzo 1976 colse di sorpresa più il Cremlino che non il KGB. Pochissime settimane prima, Brežnev aveva lodato il trattato come fondamento per le relazioni a lungo termine, non solo tra i due Paesi ma anche per il mondo arabo. In risposta, nel novembre 1976, il KGB redasse un dettagliato memorandum che prevedeva un ulteriore rafforzamento dei legami di Sadat con l’Occidente, specialmente con gli Stati Uniti, segnando una netta svolta nelle dinamiche di potere in Medio Oriente.
Il 1° ottobre 1977 segnò un momento storico, con la firma di una dichiarazione congiunta tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, sottolineando l’importanza di trovare una soluzione al conflitto arabo-israeliano. Brežnev accolse con favore questo accordo, interpretandolo come un riconoscimento del ruolo sovietico nei futuri negoziati di pace. Tuttavia, questa percezione di successo fu di breve durata. La storia ufficiale della politica estera dell’URSS racconta che l’amministrazione Carter, cedendo alle pressioni israeliane, tradì l’intesa. Pochissimo tempo dopo la firma, la visita di Sadat a Gerusalemme segnò un evento senza precedenti, sorprendendo il mondo intero. Il 20 novembre, al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, un giornalista israeliano incredulo annunciava l’accoglienza di Sadat con onori militari, un momento che sembrava quasi irreale. Questo gesto audace di Sadat, unito alla sua successiva interazione con il primo ministro israeliano Menachem Begin, fu accolto con grande scetticismo dall’URSS, che interpretò la visita non come un gesto di pace spontaneo, ma come parte di un piano orchestrato di cui gli USA erano già a conoscenza, mirato a minare l’influenza sovietica nella regione.
La visita di Sadat
La visita di Sadat a Gerusalemme fu vista dall’Unione Sovietica, attraverso lenti di sospetto e teorie cospirazioniste, come parte di un disegno più ampio piuttosto che un gesto spettacolare verso la pace. La convinzione era che gli Stati Uniti fossero stati informati del viaggio di Sadat prima ancora che si firmasse l’accordo sovietico-americano, interpretando l’evento come un tentativo di escludere Mosca dalla mediazione in Medio Oriente. Questa percezione fu accompagnata da un profondo risentimento, espresso chiaramente anni dopo da Gromyko, che non risparmiò critiche nei confronti di Sadat, accusandolo di megalomania. Il malcontento verso Sadat all’interno dei circoli del KGB era tale che si ventilò l’idea di eliminarlo, sebbene non esistano prove concrete di un piano d’azione. La reazione del KGB fu di intensificare le “misure attive” contro Sadat, diffondendo voci che lo dipingevano in una luce negativa, accusandolo di essere un ex nazista e di lavorare per la CIA, tra le altre. Queste azioni furono parte di una campagna diffamatoria che si intensificò ulteriormente dopo gli accordi di Camp David, che l’Unione Sovietica denunciò come tradimento degli interessi arabi.
All’interno dei ranghi del KGB emerse la convinzione forte che l’amministrazione Carter e la CIA avessero ingegnosamente coinvolto Sadat in un piano americano-sionista mirato a ridurre l’influenza sovietica nella regione del Medio Oriente. Nonostante fosse stato firmato un trattato di pace nel marzo 1979, gli ambiziosi piani per risolvere più ampiamente i conflitti arabo-israeliani, delineati a Camp David, non si materializzarono. L’omicidio di Sadat a opera di estremisti islamici nell’ottobre 1981 fu accolto con euforia dal KGB, visto come un colpo al nemico. Questo episodio segnò un momento di svolta, spingendo il Cremlino a intensificare il sostegno all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). La collaborazione tra l’URSS e l’OLP era già ben avviata, con figure chiave dell’OLP, come Yasser Arafat, che ricevevano addestramento e supporto dal KGB. Questa partnership si consolidò nel tempo, con l’OLP che beneficiava sia dell’addestramento militare che del sostegno politico sovietico, nonostante le preoccupazioni di Mosca per le azioni terroristiche associate a certi settori dell’OLP.
Negli ultimi anni 60 e nei primi anni 70, Arafat attirò l’attenzione non solo dell’Unione Sovietica ma anche del servizio segreto rumeno, il DIE, guidato da Constantin Munteanu al Cairo. Munteanu portò Arafat a Bucarest per incontrare Nicolae Ceaușescu verso la fine del 1970, segnando l’inizio di un rapporto di cooperazione tra l’OLP e la Romania. Quest’ultima fornì all’OLP passaporti vuoti, apparecchiature di sorveglianza e armamenti, affermando così il proprio ruolo nel supporto all’OLP con un approccio che, secondo Ceaușescu, mirava a rafforzare l’intelligence dell’organizzazione oltre alla sua capacità militare. Nel 1975, Arafat e Ceaușescu architettarono un piano contro re Hussein di Giordania, dimostrando la profondità della loro collaborazione. Questa alleanza rifletteva la complessità delle relazioni internazionali dell’epoca, con Mosca che osservava con preoccupazione ma anche con una certa distanza le mosse della Romania, temendo che l’attivismo dell’OLP potesse sfuggire al controllo e diventare una fonte di instabilità.
Attentato a Mosca
Nel 1977, un attacco terroristico inaspettato scosse il cuore di Mosca quando bombe esplosero nella sua metropolitana, opera di separatisti armeni. L’incidente culminò con l’esecuzione di tre armeni, ma circolavano voci che, a causa dell’incapacità di catturare i veri colpevoli, le autorità sovietiche avessero arbitrariamente scelto tre individui come capri espiatori per placare l’opinione pubblica, sostenendo la narrazione di un’efficacia incontestabile nella lotta al terrorismo. Nonostante l’Unione Sovietica fosse accusata da alcuni in Occidente di patrocinare il terrorismo internazionale, il Cremlino era in realtà profondamente timoroso di diventare bersaglio di attacchi terroristici. Questa preoccupazione era radicata in una serie di incidenti, tra cui tentativi falliti di dirottamento e attacchi diretti, che avevano messo in allarme le autorità sovietiche negli anni 70. Tuttavia, nonostante le sue dichiarazioni pubbliche contro il terrorismo, il Cremlino era consapevole che alcuni dei “volontari della libertà” che addestrava potevano effettivamente diventare terroristi, rivelando una complessa dualità nella politica sovietica verso il terrorismo e la lotta armata.
Un rapporto del 1981 criticava aspramente la qualità dell’addestramento fornito dall’Unione Sovietica a diverse fazioni dell’OLP, evidenziando carenze sia nella preparazione militare che nella comprensione politica delle missioni all’estero da parte degli allievi. Il colonnello dell’OLP Rashad Ahmed segnalava che molti partecipanti ai corsi mostravano resistenza all’apprendimento e richiedevano di essere rimpatriati, citando scuse varie. A causa di comportamenti inaccettabili, tra cui l’alcolismo e atti di perversione, fu necessario espellere diversi ufficiali dai corsi. Ahmed sollecitava l’invio di reclute di qualità superiore per i futuri addestramenti in Unione Sovietica, sottolineando la discrepanza tra le aspettative e la realtà degli allievi. Nonostante le preoccupazioni espresse occasionalmente da Mosca riguardo alle attività terroristiche dell’OLP, l’Unione Sovietica continuava a proclamare pubblicamente il suo sostegno alla lotta dell’OLP, enfatizzando le azioni intraprese dall’organizzazione per combattere il terrorismo e sostenere una lotta giusta con maturità e realismo. Questo atteggiamento rifletteva la complessa relazione tra l’URSS e l’OLP, dove la diplomazia pubblica spesso nascondeva le tensioni e le critiche interne.
Cambio di linea con Arafat
Dopo l’invasione del Libano da parte della Siria nel 1976, l’Unione Sovietica, preoccupata per le possibili ripercussioni sulla propria immagine come principale fornitore di armi alla Siria, temeva di diventare un obiettivo per gli attacchi terroristici da parte di frange dissidenti dell’OLP. Per prevenire ciò, l’11 giugno le sedi del KGB ricevettero istruzioni di adottare misure di sicurezza straordinarie, in seguito alla diffusione della convinzione, alimentata dalla propaganda occidentale, che Mosca sostenesse l’invasione siriana. In un tentativo di mitigare l’ira palestinese e riaffermare il proprio sostegno alla causa, l’Unione Sovietica inaugurò un ufficio dell’OLP a Mosca, come già previsto, e lanciò una campagna di “misure attive” per dissociarsi dall’intervento siriano, ottenendo un certo successo. Parallelamente, gli sforzi di Arafat per guadagnare legittimità internazionale, culminati nel riconoscimento da parte dei Paesi della Comunità Europea (ma non degli Stati Uniti) della necessità di includere l’OLP nei negoziati di pace, incrementarono il suo prestigio agli occhi di Mosca. Tuttavia, nonostante questi successi diplomatici, il Cremlino era sempre più allarmato dai rapporti su incontri segreti tra i leader dell’OLP e funzionari americani, interpretando tali incontri come un tentativo dell’Occidente di marginalizzare ulteriormente l’Unione Sovietica dal processo di pace in Medio Oriente.
Avvenne di conseguenza un cambiamento significativo nella retorica ufficiale sovietica riguardo ad Arafat: non veniva più chiamato “compagno”, segno evidente della sua caduta in disgrazia presso il Cremlino, che lo declassò da alleato fidato a nazionalista borghese. Questo mutamento di status rifletteva la crescente sfiducia di Mosca nei suoi confronti. Durante un incontro presso l’ambasciata sovietica a Londra, Oleg Grinevskij, a capo del dipartimento per il Medio Oriente, espose apertamente ai presenti, tra cui diplomatici e funzionari del KGB, le riserve del Cremlino su Arafat. Sebbene Mosca sperasse in un cambio di leadership all’interno dell’OLP che potesse allineare più strettamente l’Organizzazione ai suoi ideali marxisti e progressisti, riconosceva che, almeno per il momento, Arafat era l’unica figura capace di mantenerla unita. Pertanto, l’URSS avrebbe continuato a sostenerlo pubblicamente, seppur senza entusiasmo.
Questa posizione rifletteva la strategia sovietica di costruire un fronte “anti-imperialistico” in Medio Oriente, con l’Iraq come principale alleato e l’OLP come partner nella lotta contro Israele e il suo protettore americano, un rapporto che si era intensificato fino al punto di disattivare le operazioni di spionaggio contro Baghdad, segnando un’epoca di cooperazione stretta tra l’URSS e l’Iraq.
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