L’annuncio che Vladimir Putin si presenterà alle elezioni presidenziali del 17 marzo 2024 è in realtà una non-notizia.

Prima ancora dell’attacco all’Ucraina, che ha portato a una guerra di lunga durata (confermata da Putin stesso nella tradizionale conferenza stampa fiume di fine anno) della quale non è facile vedere la fine, ogni dubbio sulla sua volontà di restare saldo al Cremlino fino al 2030 era ormai sciolto. La notizia, semmai, è che Putin è oggi l’unico candidato ufficialmente in corsa e che gli sfidanti decideranno solo nelle prossime settimane se e come scendere in campo. Putin si candida “come indipendente” per allargare ancora di più la base del “proprio” elettorato: indipendente da tutti, dipendente da sé medesimo, essendo Putin l’avatar di se stesso. L’esito è scontato: Zar del Cremlino per la quinta volta, fino al 2030.



A dispetto dei suoi 71 anni, per l’ex spia del KGB che governa la Federazione con polso di ferro da oltre un quarto di secolo, e gode oggi di un consenso superiore all’80 per cento, le elezioni non sono che una formalità, una belletto per mascherare di “demokratiya” il volto di una Russia priva di opposizione reale, presidiata da rivali irreali oppure volti noti selezionati con cura. Quelli veri sono stati messi da parte in altro modo.



Una sfida non facile per chiunque voglia competere, considerato che la popolarità interna del presidente si è impennata negli ultimi due anni, a scapito di un’opposizione che non sembra in grado di fare argine allo strapotere dello Zar. Secondo il Levada Center, istituto demografico indipendente che produce le statistiche sociali più attendibili sul Paese (e classificato dal Cremlino come “agente straniero” già nel 2016, per via di modesti finanziamenti giunti dall’estero), l’approvazione dell’operato di Putin da parte degli elettori è passata dal 71% di gennaio 2022, nell’immediata vigilia dell’aggressione all’Ucraina, all’85% del mese scorso. Prima dell’invasione ucraina era scesa al 64% per l’annuncio della riforma pensionistica che portava a 65 anni l’età pensionabile degli uomini in un Paese dove l’aspettativa di vita per i maschi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è di 66 anni. Acqua passata.



La domanda non è dunque se Putin vincerà le elezioni, ma in quale misura le opposizioni riusciranno a ritagliarsi margini di consenso sui quali costruire le strategie in vista del 2030. Solo allora, forse, a 78 anni e dopo 30 anni di regno, il leader più longevo della Russia moderna deciderà di abdicare.

Di certo ci proverà il Partito Comunista della Federazione Russa, relitto dell’epoca sovietica ma ancora oggi primo partito dell’opposizione. Il candidato più accreditato è sempre Pavel Grudinin, già in competizione alle elezioni del 2018, quando ottenne 11,77% dei voti, ma anche questa candidatura è oggi in forse, per via dei contrasti espressi con l’anziano leader e fondatore Gennadij Zjuganov, che aveva sfiorato la presidenza nel 1996, sconfitto al ballottaggio da Boris Eltsin.

Anche il partito Liberal-Democratico di Russia, che a dispetto del nome cavalca posizioni spiccatamente nazionalistiche, è in cerca di un degno successore al carismatico fondatore Vladimir Žirinovskij, deceduto ad aprile dello scorso anno. Il più papabile sembra essere a oggi Leonid Slutsky, attuale leader del partito, sebbene privo dell’autorevolezza che distingueva il predecessore. A suo favore gioca comunque l’essere stato membro della delegazione russa che ha condotto le negoziazioni con l’Ucraina a partire da marzo 2022, all’indomani dell’invasione.

Si è tirato nuovamente indietro Sergej Mironov, leader di Russia Giusta, partito di ispirazione socialdemocratica, che come nelle elezioni del 2018 ha deciso di non prendere parte alla competizione, sostenendo di fatto la candidatura di Putin.

C’è infine il partito Nuovo Popolo, di orientamento liberale, fondato nel 2020 dal magnate Alexej Nechayev, capo di Faberlik, colosso della cosmetica e dei prodotti farmaceutici. Alle elezioni del 2021 è riuscito a portare a casa 13 seggi alla Duma di Stato, superando al primo tentativo la barriera del 5%.

Ma sono in molti a credere che questo partito sia nato solo per attirare i voti degli scontenti più moderati e, allo stesso tempo, per sottrarre consensi a Navalny, unico vero oppositore del regime, ma recluso nelle carceri di Stato e del quale non si hanno più notizie dallo scorso 6 dicembre.

È probabile che entro la fine dell’anno i partiti dell’opposizione scioglieranno le riserve annunciando ufficialmente i propri candidati, insieme a qualche outsider dell’ultima ora.

Come ha provato a fare l’ex giornalista televisiva Yekaterina Duntsova, pubblicamente contraria alla guerra in Ucraina, che aveva presentato i documenti per registrare la propria candidatura, prima che la Commissione elettorale centrale rifiutasse l’iscrizione per non meglio precisati “errori” nella documentazione, come riportato da Novaya Gazeta.

Si dovrà comunque aspettare febbraio per entrare nel vivo della campagna elettorale, con l’inizio dei dibattiti pubblici. Ai quali di certo non parteciperà Putin, unico candidato che, dal momento della sua prima elezione, non ha mai preso parte a un dibattito televisivo.

P.S. mentre scriviamo queste righe, secondo il New York Times “Putin ha segnalato attraverso intermediari almeno da settembre di essere aperto a un cessate il fuoco che congeli i combattimenti lungo le linee attuali, molto al di sotto delle sue ambizioni di dominare l’Ucraina”. Novità importanti, che confermano i contatti in corso tra vertici militari di Washington e Mosca, ma che vanno lette insieme a due condizioni irrinunciabili per il capo del Cremlino: il riconoscimento del suo ruolo di mediatore nella crisi mediorientale e la rinuncia al mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale. Senza sostanziali progressi politici in queste due direzioni, è sensato supporre che la guerra in Ucraina – per quanto riguarda la leadership del Cremlino – sia destinata a continuare.

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