Il due-volte-premier-mai-eletto Giuseppe Conte ha confermato oggi la sua totale estraneità – ai limiti del disprezzo – rispetto alle regole e alle prassi della democrazia parlamentare disegnata dalla Costituzione. E val la pena di sottolineare subito che l’Avvocato del Popolo è un giurista universitario.
La conversazione informale con Repubblica, pubblicata nell’edizione odierna, anticipa a sorpresa le doverose spiegazioni annunciate e attese – da parte del premier – presso il Copasir sul versante italiano del Russiagate americano. Ma senza alcun rispetto istituzionale per la sede delegata della democrazia parlamentare alla discussione in contraddittorio delle attività delle agenzie di intelligence, Conte ha dato in pasto all’opinione pubblica brandelli di una sua “versione”. Ha confermato – finalmente, ma quasi non nonchalance – di aver autorizzato (durante la crisi di governo) un incontro riservato del ministro della Giustizia Usa William Barr con i vertici operativi dell’intelligence italiana. Lascia intendere di essere stato informato della cosa non dall’amministrazione Trump (da cui è giunto negli stessi giorni un pesante endorsement al suo reincarico), ma dal direttore del Dis, generale Vincenzo Vecchione. Aggiunge poi di aver a sua volta assunto un’attenzione attiva nelle indagini chieste da Barr, “per chiarire nell’interesse dell’Italia quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull’operato dei nostri servizi all’epoca dei governi precedenti”. In concreto: un netto accreditamento delle “versioni” fornite alla stampa italiana dall’ex campaigner trumpiano George Papadopoulos (condannato negli Usa) e dalla moglie Sandra Mangiante.
Secondo questa versione Joseph Mifsud, il controverso studioso maltese domiciliato presso la Link University di Roma e oggi irreperibile, avrebbe tentato di “intrappolare” il candidato Trump in un Russiagate in realtà costruito dai servizi occidentali favorevoli all’elezione di Hillary Clinton. E i terminali italiani di questo (presunto) progetto sarebbero stato i governi guidati dai dem Matteo Renzi (oggi leader di Italia Viva, nella “maggioranza Conte”, già pronto a querelare) e Paolo Gentiloni (appena indicato da Conte alla Commissione Ue). La scorrettezza istituzionale di Conte è stata quindi veicolo di nuovi veleni politici all’interno della maggioranza giallorossa appena nata, mettendo in grave difficoltà il governo del Paese in una fase critica soprattutto sul fronte finanziario e su quello dei flussi migratori.
In una distinta conversazione con il Corriere della Sera, Conte si è d’altronde nuovamente trincerato a difesa della sua delega diretta e autonoma sulle strutture nazionali di intelligence. Quando si è riservato personalmente – per la prima volta – la delega ai servizi di sicurezza nel giugno 2018 nessun alert è scattato presso gli osservatori, anzi: la cosa è parsa in qualche modo scontata; forse per alcuni addirittura raccomandabile. Il pur sconosciuto premier dell’inedita maggioranza gialloverde, ha recitato fin dapprincipio non solo come mediatore fra i suoi vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ma anche come figura di garanzia istituzionale: soprattutto verso il Quirinale. Pochi, allora, hanno prestato attenzione al fatto che una delega delicatissima, sempre affidata per legge a un sottosegretario alla Presidenza, sia stata mantenuta direttamente dal premier, addirittura attraverso una crisi di governo.
La legge che nel 2007 ha riformato la governance politica dei servizi d’intelligence, ha istituito un’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. L’articolo 3 recita: “Il Presidente del Consiglio dei ministri, ove lo ritenga opportuno, può delegare le funzioni che non sono ad esso attribuite in via esclusiva soltanto ad un Ministro senza portafoglio o ad un Sottosegretario di Stato, di seguito denominati «Autorità delegata»”. Nei fatti i governi che si sono succeduti da allora hanno sempre seguito la prima strada. Quindi la delega è stata via via tenuta da: Gianni Letta (Berlusconi-4); Gianni De Gennaro (Monti), Marco Minniti (Letta e Renzi), Luciano Pizzetti (Gentiloni). Non è mancato un periodo di gestione diretta da parte di Monti, ma in via temporanea. Solo Conte l’ha assunta dal giorno del suo primo giuramento, senza mai disfarsene neppure dopo il secondo giuramento, poco più di un mese fa.
L’anomalia è maturata ancora una volta a fari semispenti: non si sono accesi neppure da parte del Pd al suo rientro nella maggioranza di governo. Eppure il Conte-2 è stato variamente presentato, fra l’altro, come un esecutivo di ritorno alla normalità istituzionale dopo i presunti strappi illiberali della Lega. Prima dell’esplodere del Russiagate “all’amatriciana”.