Vi racconto una storia. Prendetela come tale, un divertissement. Mettete che per mesi e mesi, a fasi alterne, vi abbiano martellato con una campagna di informazione in base alla quale l’attuale presidente degli Stati Uniti fosse giunto alla Casa Bianca anche grazie – o, forse, soprattutto – all’aiuto di attività intrusive della Russia. Hackers, trolls, depistatori, spie, traffichini, mediatori, facilitatori, avvocati, imprenditori, doppiogiochisti, lobbisti. Tutto il sottobosco della politica e dell’intelligence. Per dimostrarlo e sbugiardare l’inquilino di Pennsylvania Avenue e la sua retorica patriottica dell’America First viene messa in piedi una commissione d’inchiesta degna del Watergate, guidata addirittura dall’ex capo dell’FBI. Conclusioni? Pressoché zero. Mille sospetti, mille coincidenze, mezze prove a iosa. Ma nessuna pistola fumante. Tutto finisce in una colossale bolla di sapone.
Poi, di colpo, salta fuori dell’altro. Ovvero, lo stesso presidente che si credeva in combutta con i russi per prendere il potere, avrebbe fatto pressioni sul neo-presidente ucraino per ottenere un trattamento di favore relativamente alla gestione di un’inchiesta che riguarda il figlio del suo potenziale competitor alle presidenziali del prossimo anno, Joe Biden, e le sue attività a capo di un’azienda ucraina. Ricomincia la giostra. Ma non basta. Dentro il tritacarne finisce anche il Governo italiano, visto che saltano fuori una o più riunioni segrete fra il capo dei servizi segreti del Bel Paese e il ministro delle Giustizia di quel presidente americano un po’ trafficone, nel quale sarebbero state discusse attività di intelligence, apparentemente svolte su richiesta Usa dalle spie italiane. Et voilà, il primo ministro italiano finisce nel mirino e dovrà rendere conto dell’accaduto al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi: stranamente, in perfetta concomitanza temporale con il cambio della sua presidenza, reso necessario dal passaggio del Pd al governo (storicamente e per prassi, quell’organo di controllo è retaggio dell’opposizione).
Le opposizioni – interne ed esterne all’esecutivo – gongolano. Ma non lo fanno perché certe di poter affondare il colpo vincente, pare piuttosto che lo facciano per sviare l’attenzione da altro. O per il classico sospiro di sollievo, il time out insperato che l’allenatore chiama quando il fiato è diventato corto.
Dando alle persone il potere della condivisione, stiamo rendendo il mondo più trasparente.
Mark Zuckerberg
Cosa emerge nel frattempo, mentre il mondo parla soltanto del nuovo, potenziale impeachment a cui rischia di andare incontro lo scomodo presidente Usa proprio per le sue pressioni indebite su Kiev e l’Italia festeggia il taglio dei parlamentari, passo avanti verso il nulla politico cui tende con ansia la Casaleggio Associati? Politico, testata decisamente ben informata riguardo a quanto accade sotto il pelo dell’acqua a Capitol Hill, lancia una bella bomba a mano nello stagno della trasparenza universale: un funzionaria di lunga data dei Democratici, Alexandra Chalupa, lavorò in tandem con l’ambasciata ucraina negli Stati Uniti e con il giornalista investigativo, Michael Isikoff, per colpire il capo della campagna elettorale dell’allora candidato presidente repubblicano, Paul Manafort e screditarlo, al fine di rendere plausibile la pista russa. Al riguardo, il funzionario dell’ambasciata ucraina Andrii Telizhenko, in servizio all’epoca della campagna elettorale 2016, ricorda che “stavano coordinando un’inchiesta con il team di Hillary Clinton su Paul Manafort insieme ad Alexandra Chalupa. L’ambasciata lavorò in stretto contatto con la Chalupa”. La quale, avrebbe detto che “se troviamo abbastanza materiale su Manafort o sul coinvolgimento di Trump con i russi, si può ottenere un’audizione del Congresso entro settembre (le elezioni si tennero il 6 novembre 2016, ndr)”. Insomma, prima del Russiagate parrebbe ci fosse un Ucrainagate in case Dem?
La legittimità del potere non dipende dalla sua origine ma dai suoi fini. Per il democratico, invece, nulla è vietato al potere, se la sua origine lo legittima.
Nicolàs Gòmez Dàvila
E di quell’attività ai massimi livelli del Partito Democratico statunitense per colpire mortalmente Donald Trump subito prima del voto, esistono prove documentali: e-mail e registrazioni audio, dalle quali emerge un livello di coordinamento che non lascia spazio a interpretazioni riguardo una possibile iniziativa personale di una funzionaria troppo zelante e di un personale d’ambasciata estera troppo cortese. E grazie all’opera di “sensibilizzazione” della Chalupa in favore della candidatura di Hillary Clinton, Artem Sytnyk e Serhiy Leshchenko, fecero saltare fuori un libro nero dei pagamenti non contabilizzati a favore di Manafort. Un qualcosa che nel dicembre dello scorso anno, una corte di giustizia ucraina definì un atteggiamento illegale e che interferì con le elezioni presidenziali Usa. Avete letto bene: interferenza. Contro Trump, di fatto. Nessuno, ovviamente, in Occidente si degnò di rendere nota la notizia. Ma chi sono quei due?
Serhiy Leshchenko è un deputato ucraino. Più interessante invece è il ruolo di Artem Sytnyk, direttore del Nabu, l’Ufficio anti-corruzione ucraino nato proprio per diretto interessamento di Joe Biden, quando era vice-presidente di Barack Obama. Insomma, utilizzare la giustizia – nella fattispecie, la lotta a quel crimine odioso che risponde al nome di corruzione – per altre finalità relativamente agli equilibri di uno Stato estero. Bel copione. E parliamo dello stesso Joe Biden che ebbe un ruolo di primo piano nel sostegno alla “rivoluzione” che portò all’uscita di scena a Kiev del governo guidato da Viktor Yanucovich: appena raggiunto il risultato di aver “liberato” l’Ucraina, lo stesso vice-presidente fece tutto quanto in suo potere perché venisse creato il National Anti-Corruption Bureau (Nabu). L’organismo che, lungi dal perseguire penalmente un’attività endemica in quella ex Repubblica sovietica, si rivelò di fondamentale importanza nella costruzione di dossier ad hoc e nel reperimento di materiale su Paul Manafort, al fine di danneggiare la campagna elettorale di Donald Trump.
Addirittura, stando all’audio ottenuto da The Blaze, Artem Sytnyk si vantava platealmente di aiutare Hillary Clinton per le elezioni del 2016. In qualità di responsabile del potente e un po’ controverso ufficio anti-corruzione del Paese. Voluto dagli Usa. Anzi, da Joe Biden in prima persona. Apparentemente.
La trasparenza è un concetto imbecille, figliolo. O quanto meno inefficace, se applicato alla ricerca della verità. […] La verità umana è opaca.
Daniel Pennac
E veniamo all’oggi. Per l’esattezza alla bomba sganciata dal Washington Examiner, subito festeggiata da Donald Trump come l’inizio di una festa nel corso della quale ci sarà da divertirsi. Stando a quanto scritto da Byron York, infatti, “un impiegato della CIA che ha insinuato un’accusa da gola profonda contro il Presidente Trump, rispetto alle sue pressioni sull’Ucraina affinché indagasse su Joe Biden, ha una relazione professionale con uno dei candidati Democratici per le presidenziali 2020”. Vero? Falso? Solo il tempo e le eventuali audizioni che seguiranno il processo di impeachment, se questo non finirà in gloria, ce lo diranno. Una cosa è certa. Anzi, due.
Primo, l’unico che rischia di bruciarsi le dita in questa faccenda è proprio Joe Biden, il quale paradossalmente ha solo da perdere da un iter congressuale che obblighi tutte – tutte – le parti ritenute in causa a terminare davanti al Congresso, costrette a dire la verità. Come sempre accade in questi casi, c’è infatti chi ha spalle larghe e coperte in grado di reggere la pressione e peones che invece cedono alla paura delle conseguenze. Secondo, attenzione a cosa sta muovendosi in controluce. Ovvero questo: il grande ritorno di Hillary Clinton. Quasi dal nulla, silenzioso e letale come un mamba.
Stando al sito Predictit, l’ex segretaria di Stato e candidata sconfitta nel 2016, sarebbe terza in classifica come potenziale vincitrice della nomination democratica per la corsa alla Casa Bianca. Per ora, sideralmente staccata nelle quote dei bookmakers da Joe Biden, ma non così distante da Elizabeth Warren, la candidata di sinistra che ha battuto proprio il favorito poche settimane fa in Iowa. Il secondo grafico parla chiaro riguardo al trend in atto in casa Democratica, così come ha parlato chiaro Steve Bannon, ex controverso guru politico di Donald Trump: “È chiaro che sia in corsa, è di fatto in corsa. Sta solo cercando di decidere il modo migliore per infilarsi nella competizione”.
E, in effetti, questo attendismo in cerca di un casus belli accettabile dall’opinione pubblica statunitense per legittimare il suo ritorno in pista trova senso nell’ultimo sondaggio pubblicato il 7 ottobre da Rasmussen, in base al quale il 71% degli interpellati ritiene che Hillary non dovrebbe partecipare per nulla alla corsa presidenziale. Ma, tolto dal tavolo questo ostacolo aprioristico, in caso si arrivasse a quell’epilogo di rivincita del 2016, oggi sarebbe già testa a testa con Donald Trump. E soltanto ieri, ecco l’ultimo amo gettato: questo tweet di Donald Trump che invita proprio la Clinton a entrare in competizione per rubare la nomination alla Warren e la risposta molto secca dell’ex segretaria di Stato: “Non tentarmi. E pensa a fare il tuo lavoro”
https://twitter.com/HillaryClinton/status/1181645880983732224?ref_src=twsrc%5Etfw
Insomma, Oltreoceano comincia a prendere forma qualcosa che si riteneva assolutamente folle, impensabile, fuori da ogni ipotesi anche solo di studio. Per capirci, Joe Biden viene già dato per bruciato. Burn notice, come si dice degli agenti segreti cui salta la copertura.
Il nostro Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse.
Joseph Heller
E parlando di agenti segreti, eccoci all’Italia e al suo duello rusticano sulla consulenza chiesta dal ministero della Giustizia Usa ai nostri 007 proprio sul caso. E non sul caso Biden, sul caso elezioni 2016. “La richiesta è stata avanzata rispetto all’operato dei governi passati”, ha dichiarato il premier, Giuseppe Conte, titolare dell’interim all’intelligence e in attesa di riferire proprio davanti al Copasir. Il quale è terminato in mano leghista, visto che l’ex sottosegretario alla Difesa, Raffaele Volpi, l’ha spuntata come candidato unico del centrodestra su Adolfo Urso di Fratelli d’Italia. Insomma, il comitato di controllo sui servizi ora è in mano al senatore Salvini, l’uomo che ha mostrato tutti i suoi nervi scoperti sull’affaire dell’Hotel Metropol non più tardi dell’altra sera su La7, mentre era seduto in studio da Giovanni Floris a Dimartedì. Il quale chiede a Conte chiarezza, anche riguardo esami accademici e consulenze passate. Come ha fatto anche Matteo Renzi, non più tardi dell’8 ottobre, limitatamente però alla visita del ministro William Barr.
E il primo ministro lancia il sasso, di fatto sottolineando come gli americani chiedessero chiarezza sui comportamenti dei governi precedenti. Cioè, Renzi e Gentiloni. Di fatto, lasciando trapelare un loro sentiment ancora filo-Obama che avrebbe potuto influenzare le scelte di Roma nella competizione presidenziale del 2016 prima e nel suo proseguo sotto forma di rapporti con l’amministrazione Trump, poi. Avete capito in quale cul de sac si sta infilando il nostro Paese, mentre gli affiliati della Casaleggio Associati – prima forza parlamentare ed espressione del titolare della Farnesina – festeggiano l’abolizione di qualche poltrone e il risparmio dell’argent de poche per le casse dello Stato?
Sicuri che andrà tutto liscio, che le spalle dei protagonisti siano abbastanza larghe e coperte e gli stomaci abbastanza forniti di pelo per infilarsi nello scontro più acerrimo che si sia mai consumato in seno alle istituzioni Usa dal Watergate a oggi, amministrazione in carica contro Deep State, l’un contro l’altro armate? Ma, soprattutto, quanto deve essere alta la posta in palio, per giocare con i fiammiferi così vicino a un distributore di benzina? Ma ve lo detto all’inizio, questa è solo una storia. Un divertissement.