Quando, lo scorso maggio, i fratelli Reuben misero in fila cento milioni di euro e si aggiudicarono l’hotel Luna Baglioni, a Venezia, gli analisti cominciarono ad avere le prime conferme di quanto stavano già da tempo annunciando: l’hospitality italiana stava per cadere, pezzo dopo pezzo, in mani straniere, speculative e non. Nella fattispecie, Reuben Brothers è una società inglese non esattamente focalizzata sul turismo: è piuttosto leader nel private equity, investimenti e sviluppo immobiliare e finanziamento del debito, e vanta un portfolio di ippodromi, pub, aeroporti, media e data center. Il Luna, insomma, rappresentava una delle prime tappe dell’avanzata in Italia nel segmento hotellerie-leisure dei fondi di investimento, una generica definizione che altro non è che finanza, operazioni di impiego di risorse private, ovviamente finalizzate alla salvaguardia del capitale e alla generazione di utili.



Dall’acquisizione veneziana, la diga è crollata: nel Bel Paese, su un totale di 33 mila, sarebbero circa cinquemila gli alberghi in vendita (Google indica perfino una cifra precisa: 4.571, il 16%), di cui 126 a Roma, 167 a Milano, 385 a Verona, 114 a Firenze, 287 a Venezia, 177 a Torino, 62 a Napoli, 40 a Bologna, 32 a Pisa, 30 a Genova, per parlare solo di città. Ma la lista è lunga, e comprende strutture di ogni tipo, dalle più grandi a quelle minuscole, a conduzione familiare, dove gli indebitamenti derivanti dalle chiusure per la pandemia non risultano più sopportabili, dove le nuove norme su sicurezza e sanificazione implicherebbero nuovi investimenti, dove anche le spese per il mantenimento e la gestione ordinaria diventano ostacoli insormontabili. Ma le difficoltà e le incertezze di un mercato che sembra procedere a singhiozzo, perennemente in balìa delle contingenze pandemiche, sta spingendo anche gruppi ben strutturati a cedere i timoni, in una sorta di “selezione innaturale” che vede nel Covid una spinta decisiva, ma che nasconde anche crisi di vecchia data. Per i piccoli operatori si tratta di mancati investimenti, di difficoltà di proseguire in solitaria, senza economie di scala, di aggiornamenti mai affrontati e di una sostanziale rinuncia alla competitività. Per i più grandi, si tratta di pochezza di strumenti finanziari adeguati, di cuneo fiscale, di costo del lavoro, a volte anche di mancanza di entusiasmi nelle generazioni successive a quelle fondanti.



Comunque sia, l’ultimo tassello del puzzle-turismo, in ordine di tempo, che è passato di mano riguarda Bluserena, la seconda compagnia alberghiera leisure, fondata nel 1985 dalla famiglia abruzzese di Carlo Maresca, appena finita in mani spagnole, più precisamente in quelle del fondo Azora: Bluserena vanta 13 hotel (8 di proprietà) sparsi nelle principali destinazioni turistiche italiane, Sardegna, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Piemonte e Calabria, per oltre 4.200 camere. Un’operazione che sposta all’estero un importante asset nel panorama italiano dell’hospitality, e un nuovo, deciso segnale di pericolose dismissioni che ridisegnano il panorama del nostro patrimonio alberghiero, ma nello stesso tempo anche la conferma di interessanti prospettive per il turismo italiano, evidentemente considerato meritevole di investimenti anche stranieri sia per la sua forza intrinseca, sia per la ri-crescente presenza di turisti internazionali.



“Siamo certi che questa operazione sosterrà l’internazionalizzazione del segmento seasonal leisure italiano – hanno commentato in Cbre, una delle maggiori società di consulenza immobiliare al mondo, che ha seguito Maresca nella transazione -. Registriamo un forte interesse di mercato verso piattaforme gestionali e portafogli alberghieri e questa operazione ne è una testimonianza. Il settore dei resort in particolare è pieno di queste opportunità derivanti da gestioni familiari ed è un segmento di mercato ormai considerato resiliente anche dagli investitori core. Siamo sicuri di poter replicare a breve e con successo altre transazioni similari nel mercato italiano”.

Certo, si può parlare di “internazionalizzazione”, ma la realtà è il passaggio straniero della proprietà, una delle tante transazioni che stanno rimodellando il turismo italiano. Se si volesse evitare che poco alla volta un così importante patrimonio nazionale si sgretoli in mille rivoli sotto altre bandiere, non servirebbe invocare un improbabile golden power o un inedito spirito revanscista, ma forse incentivare e stimolare all’utilizzo di strumenti già (parzialmente) messi in campo, come ad esempio il fondo per il turismo o i contributi e i crediti di imposta consentiti tra le opportunità del Pnrr. Rivedendo allo stesso tempo tutta la politica fiscale che zavorra il settore. Ogni salvaguardia e ogni rilancio dell’hospitality italiana non possono che partire da qui.

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