In un precedente articolo citavo l’intervista al colonnello Orio Giorgio Stirpe, apparsa su Memorial Italia, nella quale l’esperto militare ipotizzava l’esaurimento del potenziale militare offensivo della Russia nel 2025 e il conseguente recupero da parte dell’Ucraina della sua integrità territoriale. Almeno per il momento non mi sembra si notino particolari difficoltà per le forze di invasione russe, che anzi stanno progredendo con ulteriori conquiste. Inoltre, il riuscito contrattacco ucraino nella regione di Kursk sta mostrando una sua faccia negativa, proprio per aver sottratto importanti forze dalle linee difensive nel Donbass.



In questo scenario, diventano sempre più forti le voci nella Nato, cioè negli Stati Uniti, peraltro più tra i politici che tra i militari, e nell’accodata UE, per un intervento più deciso contro la Russia. Intervento richiesto a gran voce da Volodymir Zelensky, anche se forse molti ucraini preferirebbero l’avvio di trattative per almeno un cessate il fuoco. Con buona parte delle strutture energetiche distrutte, il prossimo inverno di guerra si presenta molto duro per la già stremata popolazione civile.



Un altro fronte nel quale gli Stati Uniti rischiano di essere coinvolti direttamente è il Medio Oriente, messo a ferro e fuoco dal massacro perpetrato da Hamas un anno fa e dalla durissima reazione di Israele che sta sconvolgendo l’intera regione. Come già nella Striscia di Gaza, anche nel Libano rischia di prodursi una catastrofe umanitaria.

Malgrado il costante incremento a livello internazionale dei giudizi negativi sulla condotta del governo di Netanyahu, Washington continua ad appoggiare Israele, soprattutto sul versante militare. Le limitate prese di distanza sul versante politico non preservano Washington dalle accuse di complicità con le criticate, e criticabili, azioni israeliane.



L’incombente elezione presidenziale finisce per condizionare ogni possibile concreta iniziativa, mettendo in luce le profonde difficoltà della politica estera americana. Peraltro, anche per il nuovo Presidente non sarà facile affrontare la situazione. Difficile per Kamala Harris distanziarsi sostanzialmente, almeno nel breve periodo, dalla politica internazionale di Biden, da lei condivisa come Vicepresidente negli ultimi quattro anni. Donald Trump potrebbe forse far terminare la guerra in Ucraina, come continua a promettere, ma in Medio Oriente i suoi Accordi di Abramo sembrano difficilmente realizzabili, data la posizione dell’attuale governo israeliano.

Inoltre, è da considerare il fatto che il nuovo Presidente entrerà in carica il 20 gennaio del prossimo anno e per tutto questo periodo le decisioni esecutive verranno prese da Joe Biden, sperando che non ceda alla tentazione di rifarsi in qualche modo della sua rimozione.

Tutto ciò non può che favorire la Russia e il costante rafforzamento della sua presenza in queste aree, già facilitata dalle disastrose guerre della Nato contro l’Iraq, la Libia e gli interventi in Siria. Le distruzioni e le vittime civili causate dall’invasione israeliana nella Striscia di Gaza e in Libano rendono più difficile la critica alle analoghe operazioni russe in Ucraina. Mosca è così in grado di influenzare la situazione in queste aree senza un diretto coinvolgimento e con un sistema variabile di alleanze all’insegna del comune nemico: gli Stati Uniti e i suoi alleati.

Mosca trae vantaggio anche dal desiderio di affrancarsi dal dominio economico e finanziario statunitense, che sta riunendo molti Paesi nell’avventura, ancora non completamente definita, dei BRICS. L’acronimo indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ma ultimamente si sono aggiunti altri cinque Paesi: Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Il comune denominatore tra Stati così diversi sembra essere, appunto, il tentativo di autonomia dal predominio occidentale, che coinvolge Stati teoricamente allineati all’Occidente, come Arabia Saudita o Emirati Arabi.

Dietro questo scenario geopolitico stanno emergendo altri aspetti che investono fattori basilari per l’ordinamento sociale di uno Stato. In molti dei Paesi citati vi è una forte resistenza ad accettare i nuovi valori che Stati Uniti ed Europa, meglio, le loro classi dominanti cercano di imporre, anche ai loro popoli. Questi “valori”, dall’aborto come diritto alle teorie gender, sono completamente estranei alle culture degli Stati menzionati e alle loro religioni, si tratti di islam, induismo o buddismo. E lo sono anche al mondo cristiano, soprattutto dove il cristianesimo rimane un elemento fondante della comunità nazionale.

È inevitabile che questa contrapposizione venga utilizzata da chi gestisce il potere, con il rischio di confessionalizzare la politica e lo stesso Stato. Un esempio evidente è dato dalle recenti prese di posizione di Putin e del Patriarca Kirill contro il “depravato” Occidente. Nel quale, peraltro, è già in atto una confessionalizzazione basata su questa nuova “religione” dei succitati cosiddetti nuovi valori.

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