È più di una moda. Squid Game ha invaso il mondo occidentale più di qualsiasi altro prodotto coreano. La protagonista femminile, ad esempio, la modella Ho Yeon Jung, praticamente sconosciuta, è diventata il volto di Vuitton dopo aver decuplicato i propri seguaci su Instagram in appena 20 giorni. Il Dalgona, il popolare biscotto di caramello (che appare in uno dei giochi ad eliminazione) è già entrato nei menu gourmet di mezzo mondo. Senza contare il numero illimitato di recensioni che si sono cimentate nell’arduo compito di fornire l’interpretazione autentica del “gioco del calamaro”, come recita la traduzione letterale del titolo.
Un tema su cui riflettere a lungo riguarda senz’altro il nuovo gusto dimostrato dagli italiani per il coreano. La serie è infatti disponibile su Netflix (9 episodi, dal 17 settembre) solo in lingua originale con i sottotitoli in italiano. Un’impresa non da poco, che però non ha frenato anche in Italia centinaia di migliaia di spettatori, un successo senza precedenti. In appena tre settimane sono stati stracciati tutti i record di visone stabiliti da La casa di carta e da Bridgerton in Italia e nel mondo. Il coreano è una lingua con una fortissima musicalità. Assomiglia più aduna cantilena, soprattutto quando i protagonisti devono esprimere sorpresa o disappunto. Vedrete che presto troveremo il modo di inserire anche noi qualche cadenza “coreana” nel nostro lessico quotidiano.
La serie è bella e avvincente. Non perché il ritmo sia incalzante, anzi. Sono tanti i momenti di pausa dove i protagonisti dialogano e riflettono e cercano di dare un senso a quello che stanno facendo. In realtà un senso la storia non ce l’ha. Ma quello che forse attrae più di ogni altra cosa è proprio questo continuo passaggio tra il racconto fantastico e la cruda realtà, che conosciamo ma spesso dimentichiamo.
La Corea del Sud è un popoloso Paese con enormi disparità sociali. In altre parole la distanza tra i ricchi e i poveri è abissale. Il racconto di questa realtà e delle conseguenze sociali profonde sul Paese è all’origine di una straordinaria produzione culturale, che ne ha fatto in pochi anni un punto di riferimento mondiale. Nonostante la barriera linguistica, o forse anche per questa.
Squid Game è sicuramente un esempio di tutto ciò. Il protagonista, Seong Gi-Hun, è un disoccupato cronico senza più speranza di trovare un lavoro, dedito a piccoli espedienti per sopravvivere, come il gioco d’azzardo. Abbandonato dalla moglie che gli impedisce di vedere la figlia, vive con la vecchia madre che lo mantiene ma che è molto malata e non ha i soldi per curarsi. Una sera particolarmente infelice Seong in una solitaria stazione della metro viene avvicinato da un distinto signore che lo invita a partecipare a un nuovo gioco, dov’è possibile vincere molti soldi. L’invito è assai sospetto, ma Seong non ha più nulla da perdere e chiama il numero che l’uomo misterioso gli ha lasciato con il suo biglietto da visita.
Seong viene quindi prelevato e addormentato. Si risveglia in un luogo misterioso insieme ad altre centinaia di persone come lui. Ognuno ha un numero ben in evidenza sulla tuta. Lui ha il 456 e ben presto capisce di essere l’ultimo arrivato. Gli organizzatori a questo punto rivelano le regole del gioco e il valore del montepremi. Si tratta di una gara a eliminazione, nel senso letterale del termine. Di volta in volta il gioco a cui dovranno sfidarsi verrà svelato poco prima dell’inizio, ma in ogni caso si tratta di giochi della tradizione coreana, conosciuti da tutti, che ogni bambino ha provato almeno una volta nella vita. Le regole sono semplici, molto meno la scelta della tattica migliore per vincere. Il montepremi è enorme, chi vincerà vedrà accreditato sul proprio conto corrente milioni di Won.
Dopo il primo gioco, i partecipanti si rendono conto dei rischi che corrono e la maggioranza vota per abbandonare la competizione e il gioco è sospeso. Bastano pochi giorni di ritorno alla vita ordinaria per convincere quasi tutti a chiedere di ritornare a giocare. Quello che i concorrenti non sanno è che essi stessi sono parte di un altro gioco, quello che riguarda i ricchi, che si divertono a scoprire sadicamente i comportamenti dei concorrenti – trattati come cavalli – costretti ogni volta a scegliere tra i buoni sentimenti e l’istinto, che li spinge a sopravvivere e a cercare di vincere il ricco premio.
Squid Game è un racconto crudele e senza veli. Molti commentatori sottolineano la dura critica al capitalismo e la condanna severa di un sistema sociale così iniquo. Colpisce anche come sia rilevante il peso di costumi e di credenze religiose. Ma sopra ogni cosa prevale il tratto comune di una crisi esistenziale che condanna anche i ricchi a una vita triste e priva di motivazioni. Molto denaro non risolve il problema. La ricerca delle emozioni provate durante l’infanzia, l’uso dei tipici giochi dei bambini, il divertimento semplice e coinvolgente delle poche regole chiare da rispettare, prevalgono su ogni costruzione della società degli adulti.
Per come si conclude il racconto non è semplice immaginare una seconda stagione. Allo stato sembra poco interessato al progetto il creatore e produttore della serie Hwang Dong-Hyuk. Di diverso avviso Netflix, ovviamente.
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