Non si può dire che l’obiettivo non sia chiaro: “I morti parlano!”, tuonano i titoli di testa di Star Wars Episodio 9: L’ascesa di Skywalker. J.J.Abrams, richiamato al timone dopo Il risveglio della Forza per sostituire Colin Trevorrow e calmare le ire dei fan dopo gli stravolgimenti dell’ottimo Gli ultimi Jedi, ha avuto sulle spalle il tremendo compito di dare un finale (temporaneamente) definitivo alla saga per eccellenza del cinema contemporaneo. L’ansia da prestazione deve aver evidentemente avuto la meglio sull’ispirazione.



Al centro del film stavolta c’è la connessione tra Kylo Ren, generale supremo del Primo Ordine, e Rey, allieva Jedi che si sta addestrando per dominare la Forza: il primo vuole convincere la seconda a passare al Lato Oscuro. Ma l’ombra del defunto imperatore Palpatine è ancora presente su tutti e la sua “resurrezione” assieme a quella di una flotta sterminata minaccia il futuro di tutti. Rey e i suoi compagni di avventure dovranno raggiungere l’imperatore su un pianeta nascosto e cercare di sconfiggerlo, mentre la guerra incombe.



Abrams e Chris Terrio rimaneggiano il precedente script di Trevorrow e Derek Connolly e decidono di riportare la saga alle basi, esattamente come fatto con l’episodio 7 (primo di questa terza trilogia), abbandonando gli scossoni narrativi, mitologici e stilistici impressi da Rian Johnson nel precedente film e che avevano portato i fan a chiederne la cancellazione dal canone. Ecco, Abrams e compagni fanno quello, lo cancellano dal canone in un certo senso, facendo resuscitare i morti in ogni senso: da un incipit mai così buio per la saga, che sa tanto di viaggio nell’Ade, L’ascesa di Skywalker riporta il racconto alla sua matrice fantasy più classica, al vigore religioso dei suoi personaggi, alla sacralità delle sue icone passate.



Anche i colori, la grana della fotografia di Daniel Mindel, i toni delle sequenze sposano la voglia di restaurazione che spesso contraddistingue il lavoro cinematografico di Abrams, una restaurazione che è anche un richiamo alla pacificazione delle forze per combattere un nemico superiore, non a caso IL nemico dell’intera saga, fin dagli episodi diretti da Lucas. E non a caso, per sconfiggerlo, Rey dovrà sentire tutte le voci dei Jedi passati, e quindi permettere a tutti gli attori della saga di fare un cameo, così come la Resistenza dovrà attendere la comparsa di tutti i velivoli presenti nella mitologia di Star Wars per vincere la sua guerra.

La morale è chiara: solo dando ascolto e poggiandosi sul glorioso passato si possono affrontare le sfide del futuro. Una morale conservatrice e un po’ retriva (Make Star Wars Great Again?), ma perfettamente adatta allo scopo, ossia dare ai fan – prima che allo spettatore – ciò che vogliono, farli sentire coccolati, rassicurarli. In L’ascesa di Skywalker conta poco la forma cinematografica e forse conta poco anche la narrazione o i personaggi (con buona pace di Kylo Ren e dei suoi tormenti, la cosa migliore dell’intera trilogia, servito benissimo dal suo interprete Adam Driver): ai suoi realizzatori interessa quasi esclusivamente arrivare al finale, togliersi l’incombenza e mandare a casa il pubblico meno scontento possibile.

Forse ci riescono, ma al costo di rendere il film uno dei meno interessanti dell’intera saga, di privarsi di vera avventura, di vera tensione, della potenza visionaria che è il vero filo conduttore del progetto: non c’è una sola sequenza memorabile, non c’è un momento spettacolare che non sia già stato detto o visto. Più che un film sembra una parata di vecchie glorie, una raccolta di figurine, una visita al museo di Star Wars: i fan forse saranno accontentati. Chissà il resto degli spettatori.