Trattenere in servizio un numero limitato di dipendenti pubblici fino a 70 anni, su base volontaria, inserendo, d’intesa con Giancarlo Giorgetti, il provvedimento nella Legge di bilancio 2025. Così ha dichiarato il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo in un’intervista. Poi, per prevenire le critiche di quanti sostengono che la Pubblica amministrazione deve essere ringiovanita, il ministro ha annunciato 350mila nuove assunzioni.



In verità non sono subito comprensibili i motivi di questo orientamento riguardante l’età pensionabile; a meno che non vi siano delle ragioni di ordine tecnico, derivanti dall’introduzione pro rata, a partire dal 1° gennaio 2012, del calcolo contributivo: un sistema che – com’è noto – non ha dei limiti oltre i quali è stabilita la cessazione del servizio, essendo i coefficienti di trasformazione a valere per il montante in regime contributivo fissati fino a 70 anni. Ci sono però delle incongruenze che meritano una spiegazione, a fronte di un cambio nell’orientamento dei Governi succedutesi nel tempo.



Quando, a seguito della riforma Fornero, anche nel pubblico impiego si passò al regime misto, molti dipendenti – specie se di qualifiche elevate – avevano visto la possibilità di evitare la cessazione automatica del servizio al raggiungimento dei 67 anni e di continuare a lavorare avvalendosi di una più elevata quota contributiva per aumentare l’importo della pensione. E avevano persino continuato a versare i contributi. L’operazione era stata dapprima stigmatizzata perché, in quei tempi, riscuotere pensioni elevate era considerato un abuso etico. Quindi era scattato il divieto di avvalersi legittimamente delle nuove norme per conseguire un trattamento più elevato di quello riscosso con le regole precedenti. Si arrivò ad una revisione ope legis dell’assegno, senza restituzione dei contributi nel frattempo versati. Oggi se passasse la misura proposta da Zangrillo si farebbe ritorno al quadro normativo che fu proibito dieci anni or sono.



Il pensionamento nel pubblico impiego ha conosciuto nel tempo parecchie modifiche contraddittorie. Su di un impianto base costituito da elevati requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia (65 anni uniformi per uomini e donne) erano incoraggiati e incentivati in diversi modi gli esodi anticipati, fino allo scandalo delle baby pensioni che si portano ancora appresso – dopo 50 anni – un onere di 9 miliardi l’anno. Le riforme hanno inciso in chiave di graduale uniformità con i settori privati a modificare le regole del trattamento anticipato che oggi sono le stesse. Strada facendo si stabilì che volontariamente i pubblici dipendenti potessero arrivare a 67 anni, mentre per le donne, che hanno attraversato di pari passo le forche caudine delle quote e dei blocchi dei requisiti, nel frattempo si era aperto un altro problema: la riforma Amato del 1992 aveva uniformato al ribasso in linea con il settore dipendente privato, da 65 a 60 anni, l’età di vecchiaia delle donne, alle quali fu concesso per un triennio la possibilità di usufruire di Opzione Donna, una facoltà che non fu giudicata conveniente a causa del ricalcolo contributivo sull’intero periodo di servizio, ma che divenne appetibile – sempre in un contesto di nicchia – quando si rimise in moto la parificazione tra i generi dell’età pensionabile di vecchiaia. E di conseguenza l’opzione venne poi prorogata, anche con modifiche di anno in anno.

Così, nella XVI legislatura – su perentorio invito dell’Ue – il legislatore dovette riunificare a marce forzate, nel pubblico impiego, più gradualmente nel privato, le due discipline a 65 anni che poi sono diventati, dal 2019, i 67 di oggi. Sempre nella XVI legislatura a un certo punto si scatenò la furia del ringiovanimento e dello sfoltimento del personale, nel senso che le amministrazioni furono autorizzate – a loro discrezione – a mandare in quiescenza i dipendenti appena avessero maturato i requisiti del pensionamento anticipato a prescindere dall’età anagrafica (40 anni di versamenti). Un trattamento più flessibile fu consentito ai medici e ai docenti universitari. Anche nel pubblico impiego le regole del pensionamento hanno percorso di pari passo con il privato le forche caudine delle quote e dei blocchi dei requisiti, con ricadute significative su servizi essenziali, come la scuola e la sanità che hanno pagato il conto di uscite anticipate grazie a Quota 100 poco prima che scoppiasse la crisi pandemica.

Tutto ciò premesso, non sembra che l’idea che il ministro Zangrillo sta studiando con Giorgetti rechi un particolare valore aggiunto all’efficienza della Pa e al sistema pensionistico, a meno che l’operazione non sia concentrata, col supporto di adeguati incentivi, su settori e servizi caratterizzati da una carenza di personale tale da metterne in discussione l’erogazione agli utenti.

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