Sono passati solo circa tre anni da quando l’allora ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, in occasione di un’Audizione sulla riforma dei concorsi (DL n.80/2021) in Commissioni congiunte 1ª Affari Costituzionali e 2ª Giustizia, rilevò: “Ringiovanire l’amministrazione è un ingrediente fondamentale per sostenere il cambiamento e la digitalizzazione: oggi l’età media dei dipendenti pubblici è di 50,7 anni. Siamo ultimi in Europa per quota di dipendenti pubblici sotto i 34 anni. Siamo primi, di contro, per over 55“; e aggiunse: “I nostri giovani e i nostri migliori talenti potranno vedere nella Pa un datore di lavoro attrattivo e diventare protagonisti di un ambizioso programma di cambiamento del Paese. Dall’altro lato, la PA, grazie all’innesto di nuove competenze, potrà trasformarsi in catalizzatore della crescita, favorendo, attraverso la reingegnerizzazione dei processi organizzativi“.



E durante lo stesso arco di tempo, la gran parte dei media non fece altro che rilanciare i trionfalistici proclami sulla maggiore efficienza della Pa, sul ringiovanimento grazie ai concorsi, sulla acquisizione delle “nuove competenze”.

Purtroppo, tra le ottime intenzioni e la loro realizzazione, di mezzo c’è sempre la solita e ostinata realtà.



Passati, infatti, questi tre lunghi e difficili anni, il nuovo inquilino di Palazzo Vidoni, componente di un Governo nel cui programma vi è l’enunciazione dell’abolizione della riforma Fornero e l’abbassamento dell’anzianità pensionabile, lancia l’idea del pensionamento dei dipendenti pubblici a 70 anni, che, almeno inizialmente, dovrebbe comunque essere solo su base volontaria.

Una semplice boutade? Almeno a guardare la bozza del nuovo Contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto Funzioni locali (comuni, province, città metropolitane, regioni e loro enti) non sembrerebbe proprio. Per la prima volta, infatti, si inserisce nell’articolato la previsione del cosiddetto “age management”. Come sempre, si utilizzano fonemi anglosassoni per enfatizzare concetti molto “terra terra” e, cioè, che l’invecchiamento costante della Pa è sostanzialmente inarrestabile, nonostante le misure introdotte. Che, evidentemente, non funzionano.



Se in un contratto si prevede l’obbligo di monitorare le condizioni di salute, evidentemente precarie, del personale sempre più anziano, favorendone il part-time e il lavoro agile, la rassegnazione verso un fenomeno che non ha argini è evidente.

Gli argini mancano per ragioni molto semplici. Per quanto le riforme della Pa, in particolare sulla gestione dei concorsi, abbiano effettivamente semplificato e di molto le procedure di reclutamento (si badi: solo per le Pa di grandi dimensioni, come ministeri, regioni, vastissimi comuni capoluogo; per le piccole amministrazioni i tempi erano già brevi prima), il ringiovanimento e l’acquisizione delle “nuove competenze” restano asfittici.

Contestualmente, infatti, nel tentativo di rendere un po’ più “attrattivo” il lavoro pubblico, si sono anche reintrodotti sistemi “di carriera” del passato: si allude alle “progressioni verticali”, cioè procedure selettive interamente riservate ai dipendenti della Pa, finalizzate a consentire loro di ottenere una qualifica professionale più elevata (con connesso miglioramento economico). Ma queste selezioni interne ovviamente sortiscono l’effetto di togliere spazio ai concorsi pubblici. Quindi, sono in chiara antitesi sia col ringiovanimento, sia con le “nuove competenze”. Le progressioni verticali non dovrebbero essere maggiori del 50% del totale dei posti messi a concorso. Tuttavia, i contratti collettivi sottoscritti tra il 2022 e il 2023 hanno introdotto delle deroghe (di più che dubbia legittimità), che hanno permesso alle Pa di andare di molto oltre il tetto del 50%; il solo comune di Roma, per esempio, ha attivato concorsi riservati per oltre 2.000 posti nell’ambito delle professioni educative. Migliaia di posti ai quali giovani e nuove competenze non hanno avuto accesso.

Ancora, contestualmente, i Governi succedutesi, un po’ per il Pnrr, un po’ perché le pressioni dei vertici burocratici sono molto forti, hanno riaperto la stura degli incarichi a dipendenti pubblici in pensione, anche in questo modo restringendo spazi a qualsiasi ringiovanimento. Ma, non basta. All’effettivo rilancio numerico dei concorsi ha fatto da corollario il fenomeno delle estesissime rinunce. Tanti vincitori di concorso non hanno preso mai servizio, sia perché magari selezionati anche da più remunerati e aperti alla carriera posti privati; sia perché, se plurivincitori di concorso, hanno scelto, ovviamente, sedi migliori e trattamenti economici più convenienti, a spese di comparti, come in particolare quello degli enti locali, poco attrattivi e, infatti, ancora oggi sul declivio della costante perdita di dipendenti in dotazione.

Se aggiungiamo a tutto ciò norme come quelle che prevedono il pagamento del Trattamento di fine servizio (corrispondente al Tfr) dopo anni e a rate, e i ritardi nel pensionamento, il quadro che se ne ricava è a tinte fosche.

La realtà è che nonostante i concorsi si possano gestire in maniera molto semplificata, tanto che nel 2023 vi sono state circa 170.000 assunzioni, l’immissione di nuovi dipendenti non può andare oltre un certo limite perché non vi sono sufficienti risorse finanziarie. Solo per garantire il ritmo dell’indice inflazionistico, la nuova stagione contrattuale 2022-2024 avrebbe dovuto prevedere una spesa di oltre 20 miliardi per una voce, quella del costo dei dipendenti pubblici, che rappresenta tra il 15% e il 17% della spesa pubblica totale: un esborso che attualmente non è possibile e, infatti, la spesa sarà di circa 8 miliardi.

Insomma, il numero dei dipendenti pubblici non può tornare a crescere, anche se sono passati lustri dai primi tetti alle assunzioni, perché un saldo positivo, misto a una contrattazione davvero in grado di garantire il recupero dall’inflazione, scatenerebbe una crescita molto sostenuta della spesa che non ci si può permettere. Infatti, a ben vedere le pur molte assunzioni coprono nella sostanza solo il turnover, ma non riescono a rafforzare gli organici. E questo lo aveva anche detto l’allora inquilino di Palazzo Vidoni nell’Audizione citata sopra: “Il sistema concorsuale recupera così la sua ‘fisiologia’ nell’ottica di garantire alle amministrazioni almeno il concreto ripristino del turnover al 100% e di assicurare ai cittadini modalità di selezione rapide e trasparenti“.

Per rafforzare davvero la Pa, ringiovanirla e scongiurare l’obsolescenza delle competenze e conoscenze, occorrerebbe andare ben oltre il 100% del turnover. Ma, indirettamente, l’attuale Ministro, nelle interviste rilasciate nei giorni scorsi, conferma che ciò non è possibile. Infatti, confida nella capacità che nei prossimi anni si possano ancora effettuare le 170.000 assunzioni del 2023. Tuttavia, da qui al 2030 circa 1 milione di dipendenti pubblici cesserà dal servizio: la media bovina parla, quindi, di circa 150.000 fuoriuscite annuali.

Infine, in questo contesto, ormai da anni i Documenti di economia e finanza (Def) e loro aggiornamenti (Nadef) prevedono che la spesa per il personale pubblico, una volta scontati gli incrementi contrattuali, resti sostanzialmente ferma.

Dunque, la Pa non può che restare congelata nei propri tetti di spesa e nelle proprie vecchie dotazioni organiche.

Rinviare di tre anni l’età pensionabile dei dipendenti pubblici, allora, è una scelta che appare in tutta la sua razionalità: alleggerisce nell’immediato la spesa previdenziale, aiuta a contenere almeno formalmente il turnover, è un tampone all’eccessiva e concentrata fuoriuscita di dipendenti nei prossimi anni. E, poiché, anche nella Pa si inizia a lavorare tardi (si considerano “giovani” vincitori di concorso ben al di sopra dei 30 anni, ormai) è anche un modo per far aspirare a pensioni di non mera sussistenza.

Lungi dall’apparire, quindi, una boutade, potrebbe essere solo l’avvio di un processo che da volontario ha tutta l’aria di dover finire per essere, più che obbligatorio, disperatamente necessario.

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