Comincia oggi il discusso appuntamento degli Stati generali dell’economia, l’evento voluto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte per dare rilievo pubblico al programma economico da approntare per la crescita. “Un evento mediatico per accreditarci come un Paese che deve essere sostenuto con i diversi fondi europei perché deve compiere grandi trasformazioni” dice Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo. La realtà è che il governo ha abdicato alla politica e marginalizzato il Parlamento, legittimandosi con la paura. Bisognerebbe tornare subito alle urne.



Per Mangiameli dovrebbero essere i partiti di governo a volerle, “se davvero ambiscono a realizzare il programma che hanno intenzione di presentare al Paese da domani in poi”.

L’opposizione ha detto che la sede più opportuna per discutere la politica economica del governo è il Parlamento. È d’accordo?

L’articolo 95 Cost. dice che “il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Dunque anche la determinazione della politica economica rientra nei poteri del Governo e cade nel potere di direzione del Presidente del Consiglio. Ciò consente al Governo e al Presidente di avvalersi, oltre che di uffici interni, anche di contributi esterni di comitati di consulenza e di presentare all’opinione pubblica nelle forme più varie le proposte politiche. Ma per trasformare queste proposte in atti concreti –  in decreti, in leggi – Conte dovrà passare dal Parlamento e confrontarsi tanto con la sua maggioranza, quanto e soprattutto con l’opposizione.



Come definirebbe l’iniziativa che comincia oggi?

Non è una discussione istituzionale, ma un evento mediatico per la presentazione del cosiddetto piano Colao. Si tratta cioè di una serie di incontri che servono a mobilitare l’opinione pubblica europea e interna, i portatori di interessi organizzati, i sindacati, le associazioni di categoria e le altre forze sociali su quanto l’Italia può realizzare dopo la crisi sanitaria per uscire dalla crisi economica.

Le sue perplessità?

Ci si può legittimamente domandare se era necessario istituire una task-force che scrivesse questo piano, visto che sono circa vent’anni e in alcuni casi anche di più che i temi trattati nel Piano sono noti e che si è fatto di tutto per non risolvere i problemi.



Cosa non si è fatto, a suo modo di vedere?

Non si sono effettuati gli investimenti e non si sono fatte le riforme, anche quelle che, come nel caso della pubblica amministrazione, non avrebbero avuto un costo o comunque un costo eccessivo. Per non parlare di ambiti come l’istruzione e la ricerca, sempre più negletti dalla politica.

E che cosa posiamo aspettarci?

Non è assolutamente detto che le idee del piano Colao saranno attuate; soprattutto quelle che non coincidono affatto con la filosofia del M5s. È probabile che finiranno nel dimenticatoio una volta finita la passerella internazionale ed europea.

Qual è il significato politico dell’evento, secondo lei?

Accreditarci come un Paese che deve essere sostenuto con i diversi fondi europei perché deve compiere grandi trasformazioni. Per questo ci sono Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.

Quando ancora ci troviamo all’interno dello stato di emergenza proclamato dal governo il 31 gennaio…

Sì, fino al 31 luglio 2020. Per fortuna il tentativo di prorogarlo di altri sei mesi, di cui si era parlato, alla fine non ha trovato seguito. Sarebbe stato disastroso.

In che modo avverrà la sua cessazione?

Ci resta ancora questo mese e mezzo e poi cesserà di fatto, per lo spirare del termine; eppure sarebbe stato bello se il Presidente del Consiglio lo avesse revocato proprio in occasione di questa iniziativa con cui si vorrebbe rilanciare l’immagine del Paese. Sarebbe stato un buon auspicio per il futuro.

In che senso?

Prima o poi, tra mascherine e distanziamenti dovrà tornare anche la politica, fatta di incontri politici e soprattutto istituzionali nelle sedi parlamentari, che sono state condizionate e tenute in una posizione marginale.

In che modo il Parlamento può recuperare la sua centralità?

Le elezioni politiche dovrebbero essere la via maestra. Basti guardare quello che sta preparando il presidente Macron. Va detto che in Francia, con la Repubblica presidenziale, esistono istituti che consentono al Presidente diverse vie per il cosiddetto “appello al popolo”: dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale alla consultazione referendaria, alle dimissioni dello stesso Presidente.

E in Italia invece?

Dovrebbe finalmente cessare questa interpretazione della forma di governo parlamentare come il tipo di governo in cui si può giustificare qualsivoglia mercimonio, purché vi sia una qualche maggioranza parlamentare disposta a supportarlo. In questo modo si fa un torto enorme alla democrazia parlamentare e si aprono le porte a sentimenti autoritari del corpo elettorale.

Come si fa allora a ristabilire la democrazia parlamentare?

Il governo parlamentare non nasce in Parlamento, ma nella competizione elettorale. La forza di maggioranza relativa si candida a guidare il governo con i suoi alleati, possibilmente indicati prima delle elezioni. E quando il risultato elettorale non consente alleanze e governi stabili e coesi, non è che si giustifica la creazione di una qualsivoglia maggioranza, anche con le forze che sono state punite dagli elettori, ma semmai si torna a votare.

Cioè quello che bisognava fare nel 2019, quando è finito il governo gialloverde.

Sì. È vero che è stato difficile, all’indomani del voto del 2018, formare una maggioranza; ma a maggior ragione dopo che quella che si era formata era durata appena un anno, bisognava approfittare per rivotare.

Ma così non è stato. Perché?

Forse per un eccesso di prudenza. Però adesso, essendosi attenuato sensibilmente il peso della pandemia, sembra venuto il momento giusto per pensare al voto.

Come ottenerlo?

Lo dovrebbero chiedere non tanto le opposizioni, come di fatto fanno da tempo, quanto proprio le forze della maggioranza di governo, se ambiscono a realizzare il programma che hanno intenzione di presentare al Paese da domani in poi.

Perché dovrebbero, se sono già al governo?

Ma perché per realizzare queste politiche, utilizzare i fondi europei e indebitare per i prossimi anni le casse dello Stato, hanno bisogno della legittimazione e della fiducia del voto popolare, che li rafforzerebbe; senza questa fiducia corrono il rischio di non fare più politica, ma di perseguire soltanto una logica spartitoria delle ingenti somme di denaro disponibili per contrastare la crisi sanitaria.

A Berlino, Parigi e Bruxelles l’Italia è vista con preoccupazione per due motivi: il debito pubblico e l’instabilità. Si può certamente dire che la stabilità politica finora è stata garantita. Ma a quale prezzo, per il nostro sistema politico e costituzionale?

Si tratta di una stabilità presunta, perché di certo non sono mancati i conflitti all’interno della maggioranza. Questa stabilità è stata alimentata con la paura che è stata riversata sui cittadini. Da questo punto di vista la pandemia è stata una grande prova di sorveglianza della popolazione, con la limitazione dei diritti costituzionali dei cittadini, e forse anche una prova di manipolazione dell’opinione pubblica.

Manipolazione, ha detto?

Sì. Fatta di comunicati stampa, bollettini degli infetti e dei deceduti, interviste a virologi che, invece di parlare di scienza, si accanivano a dare indicazioni comportamentali. Un popolo non può vivere sempre nella paura, altrimenti possono darsi atti di liberazione irresponsabili. E nessuno certamente può volere questo.

Che cosa bisogna fare?

Ripristinare la politica, quella fondata sulla speranza e sulla capacità di progettare un futuro migliore. Solo la politica vera può rassicurare le cancellerie europee, così come la politica degli altri paesi può rassicurare noi.

Quanto al debito pubblico?

La sua sostenibilità non dipende tanto dal risparmio di spesa pubblica o dal taglio dei servizi pubblici, bensì dall’investimento e dalla crescita e per questi è necessaria una sana democrazia, con cittadini che possono votare il proprio rappresentante, scegliere il proprio governo e affidarsi alle decisioni di questo.

(Federico Ferraù)

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