Gli Stati generali dell’economia non vedranno la partecipazione del centrodestra, ma già in avvio, nella giornata di domani, è prevista un’importante presenza delle istituzioni europee. In collegamento ci saranno infatti Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, oltre a Paolo Gentiloni. Il fatto che i numeri uno di Commissione Ue e Bce partecipino a questo “simposio” cui il premier Conte ha dato molta importanza, tanto da rischiare uno strappo con i partiti che lo sostengono, non può passare inosservato. L’esecutivo cerca una “benedizione” europea? “La presenza di questi importanti rappresentanti delle istituzioni comunitarie potrebbe essere giustificato dalla volontà del Governo di mostrare all’Europa che intende ragionare su come utilizzare al meglio le risorse che arriveranno da Bruxelles. E allo stesso tempo potrebbe anche nascondere la volontà di far garantire alle istituzioni europee, davanti all’opinione pubblica italiana, che sosterranno il nostro Paese. Quel che conta però è la sostanza sia dell’impegno europeo che di quello che l’Italia può predisporre, speriamo con qualche logica strategica, per rimettere in piedi il Paese”, ci dice Sergio Cesaratto, professore di Politica monetaria europea all’Università di Siena.
Invitare i massimi rappresentanti di Commissione e Bce non potrebbe essere un’arma a doppio taglio? È vero che si può chiedere una “garanzia” sul sostegno europeo, ma vuol dire anche che occorrerà presentare proposte che soddisfino le condizioni europee…
Sì, questo è vero. E in effetti anche a guardare il piano Colao, indicato come “base di partenza” per gli Stati generali dell’economia, non si denota l’intenzione di attuare una politica industriale coraggiosa in Italia, che rimetta cioè al centro l’intervento pubblico. Il fatto che Mariana Mazzucato non abbia firmato il rapporto conclusivo della task force è in tal senso significativo.
Perché?
Perché lei è favorevole a un intervento pubblico nell’economia, con ciò intendendo che lo Stato non si limita a una politica industriale che crei le condizioni di contorno per lasciare poi l’iniziativa al privato, ma che prende esso stesso l’iniziativa individuando i settori dove investire, quelli che si ritengono promettenti. Cosa che peraltro ha appena fatto la Germania, che ha deciso di puntare sull’idrogeno. Una politica industriale più coraggiosa, che riveda veramente l’intervento pubblico al centro, sarebbe invisa a Bruxelles. Volere un imprinting europeo su ciò che si fa in Italia vuol dire accettare di limitarsi a una politica industriale di contorno, senza poter ricostruire quello che è stato smantellato con l’Iri. Noi avevamo una matrice industriale fortissima e completa nei settori chiave, ma ora l’abbiamo persa.
L’Iri è spesso però associato all’idea di un “carozzone” o di un “poltronificio”. Si vuol tornare a questo?
Ovviamente no, ma avremmo bisogno di una classe politica che sappia selezionare e mettere persone giuste al posto giusto, rispettando poi l’indipendenza delle aziende, come mi sembra peraltro avvenga per Fincantieri e Leonardo, gioielli dell’alta tecnologia in Italia, che hanno anche autonomia progettuale, tecnologica e imprenditoriale. La presenza pubblica inoltre non deve necessariamente realizzarsi attraverso imprese pubbliche, ma anche tramite un ruolo di programmazione, di progettualità che sembra purtroppo mancare nel Paese.
Facciamo un passo indietro. Prima ha ricordato che, oltre a quello che deciderà di fare l’Italia, conta anche la sostanza dell’impegno europeo. Da quel che sta emergendo negli ultimi giorni non intravede il rischio che al Consiglio europeo del 19 giugno si arrivi un “compromesso al ribasso” sul Recovery fund: meno risorse e più condizionalità?
Mi sembra che la situazione sia esattamente questa. Probabilmente alla fine le risorse non saranno molte e comunque andranno poi restituite. Non siamo certo di fronte a un’Europa solidale, a una svolta europea, con un bilancio federale che redistribuisca risorse tra i Paesi dove c’è più bisogno. Certamente sono fondi che se dovessimo reperire da soli ci costerebbero di più come tassi di interesse. Il problema sta proprio nel fatto che continuiamo a pagare tassi sul debito superiori alla nostra crescita. Avremmo bisogno di interessi più bassi, tendenti allo zero, di modo che quel che ora finisce a finanziare il servizio del debito possa essere usato per interventi pro crescita senza indebitarci col Mes o quant’altro. C’è quindi ancora un’insufficiente azione europea per ridurre i tassi di interesse sullo stock del debito pubblico.
Nel frattempo la situazione per il Paese si complica.
Sì, perché oltre ad avere bisogno di politiche dal lato dell’offerta, di riqualificazione e rilancio del sistema industriale, il Paese continuerà ad avere bisogno di risorse anche per sostenere la domanda interna, visto che scadranno Cig e blocco dei licenziamenti e ci sono settori come il turismo praticamente fermi. Sarà necessario farlo non solo per sostenere le famiglie, ma anche le imprese.
In questo senso la viceministra dell’Economia, Laura Castelli, ha già detto che bisognerà aumentare ancora il deficit, entro fine anno, di una decina di miliardi, perché “emergono nuove necessità”. Basterebbe questo nuovo scostamento del deficit, che andrebbe anche autorizzato dal Parlamento?
L’autorizzazione parlamentare è una questione politica. Dal punto di vista economico mi sembrerebbe in ogni caso un miracolo se bastassero dieci miliardi per far fronte al crollo dei redditi delle famiglie. Di nuovo emerge il problema che non possiamo indebitarci a tassi di interesse come quelli attuali. In tal senso mi sembra anche illusorio pensare di risolvere tutti i problemi emettendo Btp “per gli italiani”, perché, stante il crollo del Pil, avremmo bisogno di poterci indebitare a tassi vicini allo zero. È vero che la Bce ci sta aiutando, ma avremo forse bisogno di un sostegno europeo più robusto, che metta davvero in comune gli stock di debito pubblico, come ci si proponeva di fare con gli eurobond ormai definitivamente accantonati.
(Lorenzo Torrisi)