Puntuale come una cartella esattoriale, da Bruxelles è arrivata anche quest’anno la Relazione sullo Stato di diritto. Questo “documento di lavoro dei servizi della Commissione Ue” presenta alcune particolarità. La prima è appunto la firma: chi lo ha redatto? Da chi sono composti questi non meglio precisati “servizi della Commissione Ue”? Che autorità hanno per dispensare patenti di democraticità? In coda al documento (la parte dedicata all’Italia è lunga 48 pagine), i funzionari di Bruxelles fanno conoscere le loro fonti, gli organismi consultati nel corso di un loro breve sopralluogo in Italia, gli atti parlamentari presi in esame, gli articoli di giornale considerati. Si dimenticano però di riportare nomi e cognomi degli autori, lasciando genericamente alla Commissione Ue la paternità.
La seconda è che siamo alla quinta edizione della Relazione. La prima risale al 2020. È un’iniziativa recente, non si può dire che appartenga alla storia dell’Unione Europea. È stata introdotta per accorciare le briglie dei 27 e aggiungere uno strumento di pressione per indurre i Paesi membri a rispettare i diktat comunitari. Non è un caso che in quello stesso 2020 fossero in corso i negoziati tra i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo per rivedere lo statuto del Meccanismo europeo di stabilità (MES) in senso restrittivo. Tali modifiche al trattato MES, approvate nel novembre 2020, sono esattamente quelle che l’Italia ha deciso di non ratificare. Sta di fatto che la Relazione sullo Stato di diritto è diventata una delle più collaudate leve in mano a Bruxelles per condizionare gli Esecutivi, lo strumento di una vera e propria tecnica di governo, la stessa cui appartiene anche il MES: quella delle condizionalità. In sostanza, un Paese è bravo se fa quello che ordina Bruxelles.
La terza caratteristica è che – sulla scia delle anticipazioni pubblicate da Repubblica – il mainstream editoriale presenta questo testo come una condanna senz’appello del Governo Meloni, ignorando sistematicamente i giudizi positivi e le “buone pratiche” contenuti nella Relazione. Sulla giustizia, si tace sull’accorciamento dei tempi dei processi per denunciare i presunti rischi della riforma Nordio: “Potrebbe avere implicazioni per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzione”. Invece sul versante dedicato al sistema di bilanciamento dei poteri si critica la riforma del premierato. Un rilievo è particolarmente significativo: “Il presidente della Repubblica non potrebbe trovare una maggioranza alternativa e/o nominare una persona esterna al Parlamento come primo ministro”. Cioè un tecnico alla Monti o alla Draghi.
Il dettaglio è importante, perché riflette la logica che prevale nell’Ue. I tecnici, infatti, servono ad affidare al potere della burocrazia (di Bruxelles) le responsabilità della politica. I partiti non trovano accordi per formare un Governo? Si nomina un tecnico che risolva ogni problema. La Commissione Ue vuole lanciare avvertimenti ai 27 Paesi evitando di metterci la faccia? Incarica un gruppo di funzionari per redigere un atto di accusa contro i governi scomodi. Che legittimazione politica o popolare hanno i tecnici o le strutture dell’euroburocrazia? Nessuna. Eppure finisce che comandano loro.
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