Una svolta perentoria, quella contenuta nell’ultimo Dpcm annunciato domenica sera in tv dal presidente del Consiglio Conte, quasi a controbilanciare le incertezze del Dpcm del 13 ottobre: i sindaci possono decidere coprifuoco locali, la chiusura di vie, piazze, centri urbani dove la frequentazione è considerata un volano di diffusione della pandemia. Il provvedimento ha fatto insorgere contro il Governo molti primi cittadini, che ieri hanno chiesto e ottenuto da palazzo Chigi un chiarimento sulle competenze riguardanti il controllo delle aree, che spetta a questori e prefetti.



L’ultimo decreto del presidente del Consiglio è arrivato soltanto a 5 giorni di distanza dal precedente, quello delle mascherine all’aperto, dello stop ai viaggi di istruzione e dei locali pubblici chiusi a mezzanotte; della volontà annunciata, e poi ritirata, di usare la polizia per impedire le riunioni domestiche. Un testo ampiamente criticato nel metodo e nel merito, pieno non di norme cogenti ma di semplici raccomandazioni, aveva già fatto notare Michele Ainis, costituzionalista, scrittore, editorialista di Repubblica. Un decreto che i nuovi contagi hanno invecchiato prima del tempo, tanto da indurre Conte a varare il decreto di domenica sera. Si è così passati dalle raccomandazioni ai sindaci trasformati in prefetti.



“Le bizzarrie giuridiche vengono da anomalie politiche” dice Ainis al Sussidiario. “Quando manca un’idea chiara è perché non è stato possibile trovare una sintesi tra i partiti coalizzati”.

Al rovesciamento delle fonti del diritto che caratterizza gli stati di emergenza, per cui le ordinanze valgono più delle leggi, e i Dpcm prendono il posto dei decreti legge, si aggiunge quello che Ainis chiama “sfarinamento” sociale e civile. “Occorre che la lente della crisi ci faccia prendere coscienza che c’è un problema che si chiama crisi del Parlamento e crisi della democrazia”.



Cosa dovrebbe fare il governo?

Domanda complicata. Non vorrei diventare anche io allenatore della nazionale di calcio, perché in Italia ce ne sono già troppi. Preferisco limitarmi ad osservare fatti politici e istituzionali. Forse è peggio non prendere decisioni chiare che decidere magari sbagliando.

Che cosa intende?

Nella primavera scorsa un lockdown tempestivo, che non c’è stato, avrebbe risparmiato molti morti. Ci può essere anche adesso il pericolo di temporeggiare. Decidere di non decidere può essere la decisione peggiore.

Prima dell’ultimo Dpcm, Conte aveva detto che un eventuale nuovo lockdown “dipende dagli italiani”. Si può scaricare sulla condotta dei cittadini un provvedimento così grave?

È innegabile che ci sia un fondo di verità: se tutti adottassero dei comportamenti virtuosi le occasioni di contagio sarebbero molto più basse. D’altra parte in questo modo si mettono le mani avanti. Come dire: se sarà lockdown, è perché mi avete costretto.

Questo prolungato stato di emergenza, con la subordinazione nella quale viene tenuto il Parlamento, come condizionerà il dopo?

Distinguerei l’aspetto sociale da quello istituzionale. Durante i primi mesi del lockdown riscoprimmo una pressante esigenza di restare uniti. Il primo scostamento di bilancio venne approvato a voto unanime. Sono segni importanti.

E adesso?

Dopo quella prima fase c’è stato uno sfarinamento, ci siamo esercitati in ciò che sappiamo fare meglio, litigare e poi dimenticare. In estate sentivo dire: ormai è passata. Non è così, a quanto pare. I fatti dimostrano che non ne abbiamo tratto nessuna lezione. In politica la guerra Stato-regioni, regioni-comuni è continuata.

Problema irrisolvibile?

Dipende. È vero che dopo la guerra c’è stato il 18 aprile ’48, il fronte popolare contro la Dc. Però ci fu anche un senso comunitario che consentì all’Italia di rinascere. In questa vicenda non sta avvenendo.

E dal punto di vista istituzionale?

L’emergenza è per definizione provvisoria. Deve avere una fine, altrimenti diventa normalità. Una conseguenza dello stato di emergenza è il rovesciamento della gerarchia delle fonti del diritto, che corrisponde alla legittimazione democratica dei vari organi costituzionali: una legge vale più di un decreto perché la fanno persone che abbiamo eletto noi cittadini, mentre un decreto viene fatto da un ministro, che nessuno ha eletto e per questo ha una rappresentatività di secondo grado. A loro volta le ordinanze sono subordinate ai decreti.

Durante lo stato di emergenza invece?

Decreti e ordinanze prevalgono sulle leggi perché funzionano in deroga alle disposizioni vigenti. Lo stato di emergenza subordina il Parlamento al Governo e imprime una curvatura in senso presidenzialista, e in via generale anche in senso autoritario perché le libertà dei cittadini diminuiscono.

Si può tornare alla normalità o questa curvatura apre una fase nuova?

Non credo che tutto tornerà come prima. Basti pensare allo smart working, l’uso del collegamento da remoto anche a scuola e in università. Il lockdown ha aumentato i guadagni di Amazon a discapito dei piccoli esercenti. Le crisi non sono mai neutre.

E a livello del nostro tessuto istituzionale e costituzionale?

L’emergenza sta funzionando da lente di ingrandimento dei nostri mali. Il fenomeno di sostituzione del Governo al Parlamento tramite il massiccio ricorso ai decreti legge è in atto da tempo. Occorre che la lente della crisi ci faccia prendere coscienza che c’è un problema che si chiama crisi del Parlamento e crisi della democrazia.

Se così sarà?

Se la lezione sarà accolta, a cominciare dalle riforme necessarie dopo il taglio dei parlamentari, avremo effetti positivi e sarà un bene per tutti.

Altrimenti?

Diversamente, il seme che rimane è l’assoluto predominio del potere esecutivo su tutti gli altri poteri.

(Federico Ferraù)