Non sono inaspettate le difficoltà che stanno ostacolando l’annunciata proroga dello stato di emergenza. Questo passaggio, infatti, rappresenta la base giuridica fondamentale delle discipline dettate con i Dpcm per ragioni sanitarie: è la chiave di volta dell’intera “impalcatura istituzionale” sinora escogitata per affrontare in modo accentrato l’epidemia del Covid.



Per questo motivo in sede parlamentare sono assai vivaci le critiche delle opposizioni, e tra le stesse forze di maggioranza appaiono sfilacciamenti inconsueti. Sullo sfondo, l’allarme lanciato dalla Presidente del Senato sul Corriere della Sera ha efficacemente riassunto quel timore che il Governo era stato capace di sopire nella fase più acuta e drammatica della crisi sanitaria: l’annichilimento del Parlamento e la concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo.



Anche il fronte regionale, pur con diverse posizioni, appare ormai sufficientemente coeso su un punto dirimente: le decisioni emergenziali non potranno più essere adottate dal Governo senza consentire un qualche effettivo rilievo alle competenze, e alle conseguenti responsabilità, spettanti alle Regioni. Affrontare i tanti problemi che via via si incontreranno nella non breve convivenza con il Covid, dovendo applicare le regole scritte da altri, è una strada che nessuna Regione è più disposta a seguire. Senza contare che un ulteriore e inevitabile sostegno a questa posizione viene dalla forte legittimazione popolare che è stata ottenuta nelle recentissime elezioni proprio da alcuni Presidenti delle Regioni particolarmente esposti nella gestione dell’epidemia. 



In un passaggio così delicato e cruciale per determinare a chi spetti manovrare il timone nel medio termine, appare allora evidente che l’asimmetria tra il blocco della maggioranza governativa e il resto del Paese – intese in senso sia istituzionale che politico – non potrà essere più colmato dal semplice appello all’unità e alla coesione che tanto era stato utilizzato nella fase iniziale. Insomma, quali che siano le ragioni di merito che inducono alla decisione di prorogare sino al 31 gennaio 2021 lo stato di emergenza, ciò che appare davvero in crisi, e forse irriproducibile, è il metodo seguito sinora con successo, ossia la catena costituita dalla dichiarazione di emergenza di rilievo nazionale, il decreto-legge autorizzativo, e i successivi Dpcm.

Ma questo meccanismo, inaugurato ab origine dal primo decreto-legge sull’epidemia (il d.l. n. 19/2020), e giustificato dall’ingegnoso ricorso alla normativa del codice della protezione civile (il d.lgs. 1/2018), non soddisfa i principi che sono posti dalla Costituzione proprio per evitare la concentrazione dei poteri sovrani, e per assicurare quindi la libertà dei cittadini rispetto all’arbitrio del potere pubblico. Con questo meccanismo, infatti, il Governo decide da solo sulla sussistenza e sulla durata dello stato di emergenza, senza che vi sia alcun intervento, neppure postumo, del Parlamento. E soltanto su questa base il Governo ha adottato i decreti-legge con i quali, come si è visto nell’esperienza del Covid, si è autoconferito poteri sostanzialmente legislativi, talora anche in deroga alla Costituzione.

Certo, rimane sempre al Parlamento il compito della conversione in legge del decreto-legge autorizzativo. Ma ormai lo stato di emergenza, tanto più se è oggetto di proroga, si è incistato nell’assetto dei poteri pubblici. E, se poi si passa di proroga in proroga, il risultato finale può essere un vero e proprio adattamento sistemico della Costituzione vivente, plasmata e ridefinita dallo stesso “stato d’emergenza”, in violazione del principio di rigidità costituzionale. 

Stavolta, il Governo si è presentato anticipatamente in Parlamento per dichiarare le sue intenzioni. Ma è evidente che questa manifestazione di buona volontà non è sufficiente per garantire il corretto dispiegamento dei rapporti tra il Parlamento – cui la Costituzione attribuisce il potere legislativo e quello supremo di intervento sulla Costituzione – e il Governo della Repubblica. Quest’ultimo dispone sì del potere di adottare “atti provvisori con forza di legge” quando sussistono “casi straordinari di necessità e urgenza” (art. 77, comma 2 Cost.). Ma non può coniugare questo potere con la dichiarazione dello stato di emergenza e i successivi Dpcm, in modo da assumere la funzione di riscrivere le regole fondamentali della convivenza, sia nei rapporti con gli altri poteri dello Stato, sia nei riguardi delle autonomie costituzionalmente garantite, sia, infine, in relazione alle libertà e ai diritti protetti dalla Costituzione.

È dunque necessario che lo stato di emergenza sia utilizzato nei ristretti limiti costituzionali e per le specifiche e circoscritte finalità cui è stato ipotizzato. Se così non fosse, sarà indispensabile rivedere, in profondità, la disciplina che presiede alla dichiarazione dello stato di emergenza “di rilievo nazionale”. Occorrerà attribuire al Parlamento la centralità della decisione sull’emergenza, non diversamente da quanto la Costituzione già prevede, ad esempio, per lo stato di guerra. Non si può trasformare lo stato di emergenza in un vero e proprio “Stato emergenziale”. Abbiamo la capacità e dobbiamo avere la forza per affrontare ogni sfida, anche la più temibile, nel rispetto della Costituzione.