Il presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che vuole prolungare lo stato di emergenza sino al 31 gennaio 2021 e che intende andare nuovamente in Parlamento per un dibattito sul punto e, forse, anche per un voto che la maggioranza, quanto meno della Camera, voterebbe senza problemi.
I contagi sono in tendenziale crescita, molti governatori di Regione stanno imponendo l’uso della mascherina all’esterno e, in fondo, il presidente del Consiglio concede alla democrazia italiana un dibattito parlamentare prima di adottare l’atto di proroga che, formalmente, non è nemmeno richiesto dalla legge. Nel frattempo, nell’attesa di un vaccino salvifico per l’umanità intera, si sta lavorando “giorno e notte” per attuare le misure economiche e per predisporre i progetti da presentare alla Commissione europea, anche se resta ancora in discussione la richiesta dei fondi del Mes.
Possiamo ritenerci soddisfatti dal punto di vista politico-istituzionale?
La risposta è che questo modo di agire già sperimentato per la proroga al 15 ottobre corre il rischio di rivelarsi un semplice rituale ormai fuori dal contesto di quello che sta accadendo. Infatti gli elettori, con la tornata elettorale del 20 e 21 settembre, hanno inviato dei segnali sul loro stato d’animo di certo non confortanti per tutta la classe politica nazionale.
Ciò che sembra non compreso è che l’aggiunta ai guasti provocati dalla crisi economica e finanziaria di quelli provocati dalla pandemia ha lasciato profondamente prostata la nostra Repubblica. Una condizione, questa, che può condurre alla fine non solo di una parte politica o della sola politica, ma anche della stessa Repubblica, come ha anche detto il presidente di Confindustria.
In particolare, non si può negare che la crisi economica abbia aumentato il divario territoriale e gli elementi negativi della questione meridionale, coltivata per oltre 150 anni, che corrono ora il rischio di fare annegare anche il Nord, il quale ormai ha una sua propria questione, quella settentrionale.
Dopo le elezioni del 2013 ci sarebbe voluto ben altro spessore politico per affrontare la ripresa, considerando anche l’assist che l’Ue ci aveva fornito nel giugno di quell’anno chiudendo la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia e consentendoci di pagare (a debito) il pagamento dei crediti (circa 91 mld di euro) dei fornitori della nostra pubblica amministrazione.
Invece, fatto il debito, i fornitori non vennero pagati, non almeno nella misura auspicata per immettere liquidità nel sistema produttivo e procurare un salto del Pil.
L’incapacità di cooperare per il bene della Repubblica fece il resto. Infatti, a causa della riottosità del M5s, che doveva aprire la sede della sovranità popolare come una “scatoletta di tonno”, fu necessario spaccare un partito di centrodestra (dopo il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi) per mantenere il governo Letta, prima, e quello Renzi, dopo.
Quella maggioranza propose una riforma costituzionale in modo unilaterale, che fu bocciata con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e la legge elettorale (l’Italicum) di accompagno della riforma venne dichiarata incostituzionale nel gennaio del 2017, perché avrebbe radicalizzato lo scontro tra le forze politiche, in quanto avrebbe dato troppo al primo partito e troppo poco al secondo, senza che vi fosse la necessità di raggiungere un consenso prossimo alla maggioranza assoluta.
Le elezioni del 2018 furono svolte con una legge elettorale costruita non per potenziare il peso del voto dei cittadini, ma per cautelare i partiti politici e in particolare il Pd.
Mai come in quell’occasione, del proprio voto il cittadino perdeva le tracce tra improbabili coalizioni, finte clausole di sbarramento e trasferimenti dei voti da una lista ad un’altra.
Se ne ricavò un risultato in cui l’unica evidente certezza era che comunque gli elettori avevano punito il Pd per la sua condotta nella precedente legislatura, ma non consegnarono – come sappiamo – un risultato idoneo a governare.
Si dovette anche in questo caso ricorrere ad alchimie particolari per formare una maggioranza tra quelli che potevano ascriversi la vittoria elettorale, cioè il M5s, e un partito, la Lega, di una coalizione che era saltata in aria prima ancora che cominciasse la legislatura. Con l’anomalia politica di un presidente del Consiglio non eletto, il governo giallo-verde durò un anno in cui furono prese misure come quota 100 e il reddito di cittadinanza, volute ora dall’uno, ora dall’altro partito. Un metodo di governo che conveniva ai partiti della maggioranza, ma è incerto che fosse funzionale a realizzare l’interesse generale.
Dopo le elezioni europee del 2019, che premiarono di più la Lega che non il M5s, la maggioranza di governo implose e Salvini riuscì a farsi addossare la responsabilità. Tuttavia, anziché andare al voto, si compose subito una diversa maggioranza con i perdenti delle elezioni del 2018, il Pd, e con l’anomalia dello stesso presidente del Consiglio.
Da quel momento abbiamo avuto un inasprimento del conflitto maggioranza/opposizione, ma anche quello all’interno della maggioranza tra gli inesperti parlamentari del M5s e quelli smaliziati del Pd. Durante la pandemia, risultò più semplice per il governo rosso-giallo mettersi d’accordo con Zaia, piuttosto che andare a discutere in Parlamento per convincere la propria maggioranza e, quando fu proprio necessario, il dibattito in aula fu risolto con la questione di fiducia.
Una democrazia di contrapposizione, maggioranza/opposizione, è un ideale a due condizioni: se la maggioranza è solida e se i principi che ispirano le decisioni di governo sono comunque comuni a maggioranza e opposizione; mentre, quando queste condizioni non vi sono, le decisioni unilaterali prese in Parlamento o anticipate dal Governo, con i decreti legge, lacerano ulteriormente il Paese, perché sono l’espressione più evidente della “frantumazione del politico”.
Ora, dopo otto mesi di “emergenza nazionale” il Paese è prostrato economicamente, per via delle molte attività che non hanno ripreso; socialmente, a causa di una scuola disorganizzata, di una sanità in difficoltà e di una pubblica amministrazione in dissesto anche per via del lavoro a distanza, tutt’altro che “smart”; infine, prostrato anche psicologicamente, come mostra una forma di depressione diffusa.
Ora, dopo il voto di settembre, con una maggioranza lacerata e un’opposizione un po’ allo sbando, il timore che al posto della ripresa possa esserci una seconda ondata sembra atterrire i cittadini e non è un caso che il presidente di Confindustria abbia paventato il pericolo del crollo del Paese.
Ecco perché non basta un pallido dibattito parlamentare sulla proroga dell’emergenza, ma occorre mostrare una svolta nel senso della collaborazione e della condivisione. Tanto più che le scelte che dobbiamo fare saranno pagate, e salatamente, dai nostri figli e dai nostri nipoti e forse oltre.
Le scelte che devono essere prese non possono soddisfare pezzi di maggioranza e non possono essere il frutto di una spartizione politica delle risorse che dovrebbero arrivare dall’Europa e dai mercati. Se non si comprende che questo è un momento topico per ricostruire la Repubblica si sprecheranno occasioni non rimediabili, come è accaduto nella legislatura precedente.
Nelle guerre e nei momenti di crisi totale, il conflitto politico tra le parti deve essere sospeso per il bene della Repubblica, come è accaduto anche in Italia in altri momenti storici (si pensi al terrorismo). Al suo posto occorre sperimentare la convergenza tra tutte le forze politiche per decisioni condivise per intero, e ciò per due ragioni: in primo luogo, per rincuorare i cittadini e spingerli a dare il massimo con il loro lavoro e impegno; e, in secondo luogo, in modo che, quando ritornerà il conflitto politico, nessuna parte possa rinfacciare agli altri errori e perdite di questa operazione che sicuramente ci saranno.
In Parlamento, per apparire credibile agli occhi dei partiti di maggioranza e anche a quelli di opposizione, perciò, occorrerà molto di più di uno stentato appello alla coesione istituzionale per l’emergenza, pronunciato malvolentieri dal presidente del Consiglio. Anche perché il collante di questa maggioranza, quello di mantenere le poltrone sino al 2023, se la situazione si aggrava, potrebbe non bastare più.
Occorre, allora, inventare procedure nuove per questa fase della politica, per coinvolgere tutti i parlamentari e ridare fiducia ai cittadini. Occorre inoltre che vi sia un pieno consenso, politico e sociale, sulle decisioni e, perciò, queste devono essere precedute da un dibattito pubblico che sinora è mancato. Occorre, infine, che i voti in Parlamento riguardino poche e fondamentali scelte per il futuro della Repubblica e non siano risicati, ma abbiano un’ampia maggioranza, molto oltre quella assoluta.
Nonostante la pandemia, questo è il momento di darsi la mano e lavorare insieme.