La velocità con cui lo Stato islamico sta guadagnando terreno in Africa occidentale è preoccupante. Dopo aver infatti messo radici nel Sahel, dove numerose missioni militari francesi sono state sonoramente sconfitte in Mali, Niger e Burkina Faso, adesso gli eredi del califfo al Baghdadi si spingono a sud, verso i paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea. Aumentano gli attacchi nel nord di Togo, Benin e Costa d’Avorio, attacchi coordinati e organizzati con grande efficacia. In Togo è recente un ennesimo attacco a vari villaggi che ha provocato decine di morti e feriti, una carneficina secondo alcune fonti.



La situazione è preoccupante, come ci ha spiegato in questa intervista Marco Di Liddoresponsabile dell’Area Geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani del Cesi (Centro Studi Internazionali): “Come già nel Sahel, le organizzazioni jihadiste fanno leva su elementi di criticità già esistenti, ad esempio tribali e sociali, per portare avanti una precisa destabilizzazione dei Paesi. L’obiettivo strategico è evidentemente raggiungere il mare, creando così un’area dominata dall’islamismo più radicale e violento che si estenda dal Sahel al Golfo di Guinea”.



Come hanno osservato diversi analisti, la portata degli attacchi in Togo, Benin e Costa d’Avorio fa pensare non a una organizzazione tribale locale come Boko Haram in Nigeria, ma a una vera e propria realtà militare in continua espansione. È d’accordo?

Assolutamente sì. La galassia del terrorismo jihadista in Africa Occidentale è moto eterogenea e attinge a tante criticità.

Quali, nei casi specifici di cui stiamo parlando?

Da una parte abbiamo scontri tribali, difficoltà sociali ed economiche che sono il terreno di cultura di questo fenomeno che si declinano in maniere diverse. Sostanzialmente lo Stato islamico monopolizza questi scontri mettendo il proprio marchio a una conflittualità che può essere anche precedente alla presenza sul territorio di una organizzazione terroristica. Però dall’altro verso c’è anche un disegno strategico dell’organizzazione stessa che va ad agire in territori nuovi.



Ecco, questo è il dato più preoccupante. I terroristi jihadisti non si fermano quindi al Sahel, ma portano avanti un’offensiva che riguarda tutta l’Africa Occidentale?

L’organizzazione jihadista sta allargando il suo spettro andando sempre più a sud, in modo da ampliare il bacino di nuove reclute. Nel nord di Costa d’Avorio, Togo e Benin ci sono tensioni che derivano dalle dinamiche migratorie interne all’Africa occidentale, dalla competizione per le risorse e dall’avversione di alcuni gruppi locali contro i governi e tutto questo fa gioco allo jihadismo, il cui obiettivo reale strategico è arrivare al mare.

Vista la forza di questa organizzazione, c’è dietro una mente, un leader preciso?

No, sia lo Stato islamico che al Qaeda li dobbiamo immaginare come due menti-alveari.

Sarebbe?

Non abbiamo un unico vertice che in modo unitario prende tutte le decisioni, ma un gruppo di leader che siedono all’interno di un consiglio superiore islamico, i quali insieme decidono e optano per una strategia di respiro. Per questo eliminare un leader singolo come già successo in passato non porta mai alla scomparsa dell’organizzazione.

Quindi non è come l’ex califfato dove c’era un leader unico?

In Siria e Iraq c’è una organizzazione meno accentuata di quella del contesto africano. Qua abbiamo una mente-alveare, una pluralità di soggetti, mentre nel mondo mediorientale le leadership individuali hanno un peso maggiore.

Macron sarà presto in visita in questi Paesi a fine mese. La Francia però ha già annunciato un cambio di strategia rispetto al suo precedente impegno: solo accordi bilaterali con quei Paesi che richiedono esplicito appoggio di Parigi. Cosa significa?

Vuole dire un minore impegno. I francesi sono rimasti scottati dai scarsi risultati ottenuti dalla missione “Barkhane” in Mali che in sette anni non ha raggiunto gli obiettivi prefissati, anzi la situazione nel Sahel è decisamente peggiore. La strategia francese cambia anche per ragioni economiche, approntare contingenti militari così vasti è molto costoso. Ma il vero problema non è né operativo né economico. Il problema è la crescita del sentimento antifrancese nelle società locali. Questo rende difficile la strategia di Parigi. Non sono bene accetti, anzi sono criticati perché accusati di perseguire obbiettivi di tipo coloniale e questo diventa un ostacolo non da poco a qualunque intervento esterno.

(Paolo Vites)

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