Nove ministri dalla Lombardia (fra cui il nuovo incaricato per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini). Quattro dal Veneto (fra cui Erika Stefani, ministro per le Regioni nel Conte-1; e Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione). Infine: due dall’Emilia-Romagna. Totale: 15 ministri su 23 nel nuovo gabinetto Draghi. A caldo i media hanno rimarcato le due cifre per distinguere fra membri “politici” e “tecnici” dell’esecutivo. Ma la proporzione individua anche il peso dei ministri provenienti dalle tre regioni che negli ultimi tre anni hanno atteso invano risposte alle loro istanze formali di passare a un regime di “autonomia rafforzata”.
Nell’autunno 2017 Lombardia e Veneto ufficializzarono la loro richiesta attraverso referendum popolari indetti dalle due giunte di centrodestra. L’Emilia-Romagna non tenne invece alcune consultazione sul passo deciso dalla sua giunta di centrosinistra. Da allora molto è cambiato – anche se non tutto – attorno ai tre dossier, presentati al Governo Gentiloni ormai a ridosso delle elezioni politiche 2018.
Il Governatore veneto, il leghista Luca Zaia, incassò al referendum un clamoroso successo (un quasi plebiscito su un’affluenza record del 57%) e vi ha poi costruito sopra una riconferma ancor più clamorosa (77% di voto personale nel settembre scorso). Zaia è considerato – con il neo-ministro lombardo Giancarlo Giorgetti – il leader moderato della Lega, particolarmente favorevole al reingresso nella maggioranza di governo del partito pilotato da Matteo Salvini.
Stefano Bonaccini – firmatario del progetto di autonomia emiliano-romagnola – è stato riconfermato a capo della Regione poco prima dello scoppio della pandemia, dopo un passaggio elettorale molto combattuto. Oggi – all’inizio del dopo-Covid e dopo la svolta-Draghi – l’unico governatore di centrosinistra nella Pianura Padana (e presidente della Conferenza delle Regioni) è considerato da molti osservatori il primo dei candidati successori di Nicola Zingaretti alla guida del Pd.
Un profilo meno netto ha avuto fin dapprincipio l’iniziativa lombarda. Il referendum promosso dall’allora governatore leghista Roberto Maroni ha registrato la quasi totalità di sì, ma con un’affluenza non superiore al 38%. È emersa anche in quell’occasione una fisionomia politica regionale frastagliata attorno alla questione “autonomia”: più divisiva che altrove nella regione un tempo di Umberto Bossi e tuttora punteggiata di grandi centri metropolitani amministrati dal centrosinistra. Maroni – dopo aver lanciato la candidatura del successore Attilio Fontana, vincente nel 2018, si è intanto ritirato da ogni incarico pubblico o di partito.
L’era Covid, nel frattempo, ha fatto della Lombardia la vera e drammatica “zona rossa” del Paese: fonte permanente di un dibattito sempre più rovente sull’attualità del decentramento regionale. D’altro canto uno specifico contraccolpo politico, maturato a Milano un mese prima della crisi di governo a Roma, ha portato Letizia Moratti ad assumere il ruolo di vice-governatore e assessore a Sanità e welfare. Moratti – imprenditrice – è stata ministro della Scuola (statale e non), ma anche sindaco di Milano (in quanto tale ideatrice di Expo 2015); è stata presidente della Rai (realtà profondamente “nazional-statale”), ma poi anche di Ubi Banca, grande istituzione finanziaria sviluppatasi dalla Lombardia in tutto il Paese. È evidente come un innesto di questa natura – per qualche verso “istituzionale” – tenderà a proiettare di per sé riflessioni più articolate ed evolute sul dossier “autonomia rafforzata”: su quello lombardo (mutuato da un’antica aspirazione leghista alla “devolution”) non meno che sugli altri due. I quali saranno pure “sleeping” sui tavoli di Governo e Parlamento, ma vi rimangono aperti “senza scadenza”. Andranno affrontati. E l’agenda del Governo Draghi difficilmente sembra poterne eluderne del tutto l’esistenza.
La stesura del Recovery Plan italiano e l’elaborazione di una riforma fiscale – che vedrà prevedibilmente la luce con la manovra 2022 – sono i due impegni principali che attendono il premier e il nuovo titolare del Mef, Daniele Franco, finora direttore generale della Banca d’Italia. E possibile che i “ministri della Pianura Padana” non abbiano un ruolo centrale nel doppio parto: meno ancora i tre governatori. Però l’allocazione delle risorse europee per la Recovery e l’impostazione della politica fiscale in vista della stabilizzazione finanziaria del Paese (debito e deficit nell’orizzonte 2027 del piano Ue) rappresentano macro-scelte d’impatto diretto su Lombardia, Emilia Romagna e Veneto e sulle loro richiesta di autonomia rafforzata. Sono tre regioni che, ai dati più grezzi, pesano assieme per il 40% sul Pil nazionale e compaiono al primo, terzo e quarto posto nel Paese riguardo il cosiddetto “residuo fiscale”, indicatore ultra-sintetico del “dare e avere” tributario di un singolo residente.
È un tema che proprio Moratti ha riproposto un mese fa – in termini per certi versi provocatori – quando ha suggerito al Governo l’opportunità di accelerare la campagna di vaccinazione nelle regioni che “producono più reddito”. È stata subissata di critiche: da parte di quegli stessi esponenti politici e commentatori che in queste ore sono in prima fila nel denunciare i rischi (almeno presunti) di un “Governo del Nord” dopo 17 mesi di “Governo del Sud”. Salutato peraltro, alla nascita, come esecutivo di “liberazione nazionale”.
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