Il fuoco cova sotto la cenere. E qualche fiammata di troppo lascia presagire che prima o poi – più prima che poi – riprenderà a bruciare con vigore minacciando di scottare chi proverà a domarlo. Il tema caldo delle autonomie tornerà presto a condizionare il dibattito politico. E incrocerà la linea rovente della crisi nella crisi che riguarda il Mezzogiorno.



Il Covid-19 ha smorzato e ravvivato il problema allo stesso tempo. Smorzato perché di fronte all’emergenza della pandemia nessuno degli attori in campo ha avuto l’ardire di stressare l’argomento, ravvivato perché proprio il protagonismo dei presidenti regionali – ormai definiti governatori – ha mostrato quanta distanza e diffidenza li separano dal potere nazionale.



E non basta perché l’anomalo andamento della malattia, che ha colpito il Nord molto più duramente del Sud, ha mostrato quanto sia fragile nel Paese anche l’impianto organizzativo delle aree economicamente più forti che di fronte a un evento straordinario e imprevisto hanno faticato non poco a trovare le risposte. Spesso e volentieri muovendosi in ordine sparso.

La confusione del comando tra centro e periferia ha fatto il resto. E grazie al capolavoro giuridico delle materie concorrenti l’incertezza ha regnato sovrana nonostante il tentativo di creare un raccordo di buon senso tra le diverse istituzioni in campo. Maggiore la difficoltà del momento, più netta la certezza che con le regole oggi a disposizione non si va lontano.



Il protagonismo delle Regioni, anche quello sviluppato in buona fede, ha fatto da contraltare al protagonismo di palazzo Chigi. E l’eccesso di esternazioni consumato in ore e ore di collegamenti televisivi e radiofonici non è certo servito a portare calma e chiarezza. Anzi, un effetto allarme – in parte voluto – si è impossessato della comunicazione pubblica.

Affrontata con malcelato orgoglio la fase critica del contrasto al morbo, con trovate mediatiche che ne hanno rinforzato il profilo virtuoso, le Regioni meridionali si sono trovate presto a fare i conti con l’inesorabile indebolimento del sistema economico. Le crisi aziendali in atto si sono accentuate, nuovi focolai d’allarme si sono aggiunti facendo prevedere il peggio.

I calcoli sommari della possibile allocazione dei fondi Mes per la sanità – ammesso che saranno davvero utilizzati – hanno rinfocolato antiche polemiche spingendo i portatori d’interesse a tirare la coperta (per una volta non corta) da una parte e dall’altra ciascuna esibendo apparenti buone ragioni. Si rinfocola così l’antica questione su come dividere le risorse disponibili.

Non è così che può funzionare. Il Paese ha bisogno di un disegno unitario come non è stato mai concepito e dunque non c’è mai stato. Non è più pensabile agire per punti o per pezzi. L’organismo va curato nella sua interezza tenendo presente che ogni parte è fortemente correlata alle altre con un vincolo di interdipendenza che è stato ben misurato.

Solo un approccio sistemico può superare gli ostacoli che inevitabilmente si frapporranno a ogni tentativo di soluzione parziale, che non tenga conto del bene comune generale e sia invece frutto di spinte corporative e territoriali a vantaggio di un gruppo di potere o di una fazione politica. Il gioco dei veti avrebbe subito la meglio. E l’immobilismo vincerà.