Stefano Binda, assolto in via definitiva dall’accusa di aver ucciso Lidia Macchi, aveva chiesto 300mila euro a titolo di risarcimento per ingiusta detenzione. La novità, dopo l’ok della Corte d’Appello, è arrivata poche ore fa: secondo quanto riporta Ansa, la Cassazione avrebbe annullato la sentenza per il 54enne, accogliendo l’impugnazione con cui Procura generale sosteneva che Stefano Binda avesse contribuito a produrre “l’errore sulla sua carcerazione” non rispondendo agli inquirenti in sede di interrogatorio di garanzia dopo l’arresto.

All’orizzonte si profila la necessità di un nuovo giudizio per ottenere l’eventuale risarcimento, come ricostruisce l’agenzia di stampa che cita la reazione dell’avvocato di Stefano Binda, Patrizia Esposito. Il legale sarebbe “senza parole” e riserva di commentare la decisione della Cassazione appena saranno rese note le motivazioni. Stefano Binda fu accusato dell’omicidio di Lidia Macchi, la 21enne trovata morta nel 1987 a Cittiglio (Varese). La vicenda giudiziaria che lo ha coinvolto si è chiusa definitivamente nel 2021 con l’assoluzione, alle spalle 3 anni e mezzo di carcere.

Niente risarcimento a Stefano Binda per l’ingiusta detenzione nel caso di Lidia Macchi

Stefano Binda fu accusato di aver ucciso a coltellate Lidia Macchi, studentessa 21enne il cui cadavere fu ritrovato in un bosco a Cittiglio (Varese), nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987. Da sempre dichiaratosi innocente, ha trascorso 1286 giorni in carcere, tra il 2016 e il 2019, e la Corte d’Appello di Milano gli aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. Nel 2018, il primo grado di giudizio a carico di Stefano Binda si era chiuso con l’ergastolo, poi prosciolto dalla Corte d’Assise d’appello di Milano e infine assolto in Cassazione.

Intervenuto ai microfoni di Iceberg, format di Marco Oliva su Telelombardia, Stefano Binda aveva parlato così a margine della decisione favorevole per l’indennizzo (ora annullato dalla Cassazione): “È stato montato un processo indiziario a mio carico, ne è risultato un processo di prove positive a mio favore e, malgrado questo, ho preso l’ergastolo a Varese. Ma soprattutto, di queste prove positive a mio favore 3 su 4 erano già a conoscenza, non sono emerse dal processo. Di fronte a un alibi confermato da un testimone da subito, il Dna sulla busta (della lettera anonima inviata alla famiglia della vittima, ndr) non era mio, di fronte a queste cose si è deciso di far prevalere, persino ai fini di togliermi la libertà, le suggestioni. Il giudice mi ha assolto demolendo l’impianto indiziario”.