IL MIO RICORDO DI STEFANO D’ORAZIO. Un giorno, sfogliando una delle più autorevoli riviste inglesi di musica al mondo, mi cadde l’occhio su una recensione di un disco dei Pooh. Ma come, su una rivista che parlava abitualmente di Jimi Hendrix, degli Stones, di Bob Dylan, degli Who, i Pooh? Mi chiesi. L’album in questione era Parsifal, uscito originariamente nel 1973, definito uno dei più interessanti dischi della storia della musica Progressive. Lo avevo sentito nominare, ma per me i Pooh rappresentavano un gruppo per ragazzine, casalinghe e gente superficiale. Poi non avevo mai sopportato quel loro modo di cantare, quei falsetti impossibili, quei coretti strappalacrime. Per la musica rock era roba da uomini duri, da gente che vive nella corsia di sorpasso e spessi si schianta.



Ma i Pooh non erano soltanto quella accezione pop facile a cui si concedevano troppo spesso. Erano una macchina musicale mostruosa, probabilmente la migliore che sia mai esistita in Italia. Dal vivo soprattutto spaccavano il tetto dei palazzetti in cui si esibivano. E il motore di questa macchina era il batterista Stefano D’Orazio, una forza della natura. Tanto bravo che quando se ne andò dal gruppo i Pooh non poterono che sostituirlo con uno dei migliori batteristi al mondo, l’americano Steve Ferrone, che aveva suonato con tutti, da Tom Petty a Eric Clapton. C’è un brano dei Pooh dimenticato da quasi tutti, della fine degli anni 70 che dice tutto della loro valenza musicale degna del palcoscenico mondiale. E’ Hurricane, un devastante brano rock in cui ogni musicista si eleva a livelli altissimi



Stefano D’Orazio nel corso degli anni si era messo anche scrivere canzoni, d’altro canto prima dei Pooh faceva parte di teatri d’avanguardia negli scantinati della Roma degli anni 60, era attore e autore, un personaggio poliedrico. Ma la musica aveva preso il sopravvento e si era unito ai Pooh quando il primo batterista della formazione aveva lasciato. Da lì è storia, conosciuta da tutti.

Stefano D’Orazio si è distinto anche per un’altra cosa, quella che ben pochi musicisti hanno il coraggio di fare quando fai parte di un gruppo di successo: lasciare la band e ritirarsi. Spesso assistiamo a patetiche nostalgiche esibizioni e dischi senza più niente da dire, quando i gruppi hanno decenni di carriera e vanno avanti solo per dovere, o per i soldi facili. Anche i Pooh erano diventati qualcosa del genere. D’Orazio nel 2009 aveva detto basta. Dignità, ecco cosa aveva preso il sopravvento. Certamente, nel glorioso tour per i 50 anni del gruppo, nel 2015, era tornato a sedere dietro la batteria e non poteva essere altrimenti, quelli erano gli amici di una vita e quella era la sua musica.



Stefano D’Orazio è morto di Covid. La vita sa essere beffarda. Pochi mesi fa insieme a Roby Facchinetti aveva scritto una canzone per Bergamo devastata dal Coronavirus, un inno a combattere insieme per risorgere, Rinascerò rinascerai. E’ stato invece proprio il virus a portarselo via, quasi una sorta di vendetta nei suoi confronti per averlo osato sfidare. Ma lui aveva già vinto: “Rinascerò rinascerai abbracciati da cieli grandi torneremo a fidarci di Dio”.