Alzi la mano chi sa elencare tutti e 14 marchi automobilistici che sono finiti nel portafoglio della neonata Stellantis. Difficile, vero? Non rompetevi la testa più di tanto. Noi ci abbiamo provato una decine di volte a fare l’elenco a mente e ce ne dimenticavamo sempre almeno un paio. È come ricordarsi i nome dei Sette Nani: ce n’è sempre uno che sfugge. Grazie a Dio, c’è internet e sono, in rigoroso ordine alfabetico, Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroen, Dodge, Ds, Fiat, Jeep, Lancia, Maserati, Peugeot, Ram, Srt, Vauxhall Motors. A cui bisogna aggiungere Fiat professional per i veicoli commerciali e sia Mopar che Faurencia per i ricambi e gli accessori.
A non voler essere aulici è un gran casino. Crediamo che, anche il giorno del debutto di Stellantis in Borsa con un ottimo guadagno, i pensieri del neo amministratore delegato Carlos Tavares siano concentrati su questo con domande del tipo: «Come faccio a convocare una riunione a Parigi con tutti i responsabili dei marchi? Se ognuno si porta dietro un assistente, ci vuole un tavolo da matrimoni con quasi una quarantina di poltroncine e un binocolo per vedere in faccia quelli che si sono seduti dalla parte opposta». Ma, al di là delle battute, persino l’ottimo primo giorno di quotazione del gigante nato dalla fusione per incorporazione di Peugeot-Citroen dentro Fca non può far dimenticare i mille problemi che ha davanti l’azienda. Il primo dei quali è la confusione.
Qualche anno fa si parlava della fame di marchi di Volkswagen che aveva messo insieme 12 brand e della difficoltà di gestione che stava affrontando. Ma nel caso dei tedeschi si trattava di tre brand premium di nicchia (Lamborghini, Bentley e Bugatti), due premium (Porsche e Audi), tre mass market (Volkswagen, Seat e Skoda), uno motociclistico (Ducati), uno di veicoli commercialI (Volkswagen Commercial) e due di mezzi pesanti (Scania e Man). Insomma, si era trattato di un’occupazione di mercato ragionata, costruita per gradi, con un progetto aggiustato di volta in volta. Quello debuttato ufficialmente in Borsa ieri è nato per necessità, perché altrimenti entrambe le aziende si sarebbero presto trovate in difficoltà. E ha, per ora, due soli obiettivi: ridurre le spese per gli investimenti nelle nuove tecnologie spalmandoli su più marchi e mettere in comune gli acquisti strozzando i fornitori.
Per il resto è tutto da fare. A cominciare dal metter ordine nel portafoglio prodotti. Fiat, Lancia, Opel (con la sua versione inglese Vauxhall), Citroen e Peugeot mangiano nello stesso piatto del mercato europeo con prodotti del tutto simili tra loro, tranne rare eccezioni. Il rischio di cannibalizzazione è più probabile di un aumento delle vendite totali. Il pane e burro di Stellantis, per adesso ed esclusa quella fabbrica di soldi che si chiama Jeep, sta tutto lì, nelle fasce di mercato che comprendono le utilitarie o poco più. E questi sono i segmenti che soffriranno di più nei prossimi anni, perché l’introduzione di nuove tecnologie alzerà i prezzi delle auto piccole fino a portarli fuori dalla portata dei loro tradizionali acquirenti.
Insomma, prima di pensare ai marchi premium da valorizzare, prima di pensare a uno sbarco in forze in Oriente, Cina in primis, o di sfruttare le sinergie tra le varie società di servizi e finanziarie di Fca e Psa, Tavares dovrà pensare di portare a casa una razionalizzazione dei marchi e dei prodotti cercando di ridurre l’enorme sovraccapacità di produzione. Questo forse il ceo di Stellantis non lo dirà ai sindacati italiani che incontrerà nei prossimi giorni. Ma probabilmente non c’è neanche bisogno di dirlo.