Nascosta tra Covid e Crisi-NonCrisi di Governo, spinta nei media sulle pagine interne dai consueti e un po’ tri(s)ti resoconti di fine anno, resa appena degna di uno sguardo sui social impegnati a discettare dell’ennesimo ultimo pigolìo delle pallide influencer nostrane, la notizia che Fiat e Peugeot non esistono più sembra aver raccolto meno interesse nella gente perfino delle esternazioni di un qualsiasi politico di seconda fila.



Eppure, è nato il quarto gruppo automotive al mondo con un fatturato vertiginoso (almeno per gli standard del sistema manifatturiero, ma paragonabile solo a un piccolo-medio fondo di investimento), centinaia di migliaia tra dipendenti e addetti indirettamente coinvolti. Per farlo sorgere è stato messo a punto un meccanismo di gestione equilibrato, frutto di passaggi di azioni (leggasi: vendite e liquidazioni), di trattative con il mondo politico (quello francese di Macron of course perché di interventi del governo contian-cinquestellico-piddino-renziano non si hanno notizie dirette) e con quello sindacale.



Ecco, a noi sembra che si sia un po’ sottovalutata quella che rappresenterà una grande sfida almeno per il nostranissimo mondo politico-sindacale, cioè che “habemus partecipazione”: una rappresentanza dei lavoratori siederà nel board del colosso industriale. Finalmente anche in Italia, perché nel Nord Europa la cosa è già realtà da un sacco di tempo, si sgretola il marxistico muro tra dipendenti e datori di lavoro. O per meglio dire, il vetro che separava il lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione diviene meno opaco, meno impenetrabile.

Una grande vittoria, non c’è che dire, per chi come la Cisl nacque con questo tra i propri obiettivi. Erano gli anni Cinquanta e mentre qualcuno ancora andava parlando e sognando la rivoluzione proletaria, un gruppetto di intellettuali formati alla scuola sindacale statunitense convinse Giulio Pastore della necessità, della possibilità, che i lavoratori assumessero un ruolo attivo nella gestione delle imprese: non la rivolta (più o meno violenta), quindi, ma il lungo e lento cammino degli Orazi, la tattica sfiancante di Quintus Fabius Maximus Cunctator, Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, contro gli adepti del tutto, qui e subito. Ora ci siamo: quanta strada dalla vecchia Fiat postbellica, quella padronale, dura di Valletta o Romiti, o quella monarchica, affascinante ma certamente non filo partecipativa (vi ricordate il motto “le azioni non si contano ma si pesano”?), di re Gianni, a questa Fiat, prima grande impresa privata italiana a prevedere che i lavoratori possano partecipare del momento decisionale.



Un fatto che non può non chiamare qualche commento. Il primo è che si tratta di una grande vittoria per il movimento sindacale nazionale: per chi, la Cisl, ci vide lungo (come gli succedeva spesso). E per chi, diciamo la Cgil, arriva come al solito dopo, ma, come al solito, dimostra un sano realismo e un’indubbia capacità di adattarsi e di cogliere l’occasione.

Il secondo è che i sindacati italiani non hanno fatto altro che cogliere i frutti di un approccio che non è nazionale, ma che nacque, decenni or sono, a Parigi, in quella politica francese che ha sempre aiutato le sue industrie ma in cambio di precise contropartite e di un do ut des che garantisse un nazionalistico controllo su quelle grandes entreprises che di volta in volta si identificano come strategiche per il bene nazionale. Certo, dalle parti di Matignon questo controllo non lo definiscono con il colorito nome di Golden share (sia perché i francesi ci tengono ancora alla loro lingua, sia perché da quelle parti le azioni dello Stato contano e pesano a prescindere dai roboanti proclami), ma rimane che quando Renault, Peugeot, Michelin, Dassault, per dire alcuni nomi, sono coinvolti in processi organizzativi che toccano la governance, il sistema d’Oltralpe si mobilita per garantire pesi e interessi.

Sarà il frutto del colbertismo, del gollismo o dello statalismo, ma resta un frutto che scambia sempre soldi e progetti (dal TGV al Concorde, ad Airbus) ai privati per forma di partecipazione (e quindi di controllo). E qui siamo distanti anni luce dall’italico costume: che ha sempre commutato, in nome di un malinteso sostegno alle persone, l’aiuto nelle crisi aziendali con la semplice presenza industriale sul territorio nazionale. “Ciò che fa bene a Fiat fa bene all’Italia”: vera o leggendaria che sia, la frase sintetizza un’epoca. Vabbè, s’è capito: la presenza in Stellantis (bel nome, che latineggia il giusto, contro il travalicante anglofonismo d’accatto imperante in troppa parte del mondo mediterraneo) non è frutto di una conquista del sindacalismo nostrano ma della tanto bistrattata tradizione francese. E quindi?

Ecco, siamo alla terza considerazione. Il fatto che le famiglie Agnelli e Peugeot abbiano scelto di lanciarsi nel futuro insegna qualcosa al sindacato? Ce lo chiediamo anche noi. E la risposta, sperabilmente e ovviamente positiva, riguarda il cuore stesso del suo futuro.

In un’epoca in cui il ruolo della rappresentanza viene stiracchiato tra una sua negazione radicale e un’impalpabile e formale riaffermazione di strade già viste o in buona parte velleitarie, non è davvero credibile che Stellantis sia solo un primo appiglio da cui iniziare una scalata trionfale. No Stellantis, quel posto in CdA, implica quanto meno un cambio di posizione: comporterà di saper coniugare l’interesse generale con quello di settore. Richiederà una posizione politica tanto quanto industriale: sapere di automotive non basterà se non si sposerà con una maggiore attenzione alle grandi dinamiche internazionali. Meno veltroniani proclami alla “ma anche”, potremmo sintetizzare, e più scelte radicali “questo e non quello”.

Richiederà una formazione del gruppo dirigente più profonda e più attenta alle dinamiche internazionali, meno ripiegata sulla bottega romana e più attenta ai tavoli dove si gioca il futuro, quelli brussellesi. Implicherà di non rifare gli errori fatti in precedenti occasioni (quanto successo nel settore bancario dovrebbe insegnare). Soprattutto, però, dovrebbe trascinare a porsi una domanda seria sul come proseguire. La buona sorte, la forza di uno Stato, hanno consentito di arrivare dove decenni di scioperi e di manifestazioni neanche ti avevano fatto avvicinare. Ma non basta: Stellantis (anche nella sua variante italica: lo stellone nostrano) è stata un caso. Come fare a entrare invece nei grandi agglomerati che oggi distribuiscono l’acqua, il gas, la luce, Internet nelle case di tutti gli italiani? Non vi è forse un interesse pubblico in tutto ciò? Lo Stato italico non ha forse voce in capitolo? Ma siamo sicuri come sindacati di avere una idea politica della governance di queste infrastrutture? Non c’è ancora una patina di retorica di fondo che rallenta i movimenti? E magari anche un po’ di malcalcolata (e formalmente negata) nostalgia per la via breve, il sentiero corto e pianeggiante di quando i problemi si risolvevano con slogan e manifestazioni?

Entrare nei board implica responsabilità e fatica di decidere: la strada per il futuro è tracciata, ma essa assomiglia più a un sentiero impervio di montagna che a un’autostrada. O se vogliamo dire che si tratta di autostrada, allora in noi c’è più la tentazione di associarne l’immagine a quella della Salerno-Reggio Calabria che non alla Highway californiana o al Pont de Saint-Nazaire, Loire Atlantique, France.

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