STELLANTIS. Bravissimi. Strabravi. Con un mercato europeo che in gennaio ha fatto segnare il settimo mesi consecutivo di calo delle vendite, allungando ulteriormente il peggior periodo dell’industria automotive in Europa da quando l’Acea, l’associazione dei costruttori, ha iniziato a seguire il mercato nei primi anni ’90, e con un aumento dei costi delle materie prime che si è riverberato su tutte le fasi della produzione dell’auto, Stellantis ieri ha annunciato che nel primo anno dopo la fusione tra Fca e Psa, il margine sul suo utile operativo rettificato è salito all’11,8% nel 2021, al di sopra del suo obiettivo dichiarato di circa il 10%, pagherà 3,3 miliardi di euro agli azionisti e 1,9 miliardi di bonus ai dipendenti. 



Un miracolo quello di Stellantis che dalle parti di Parigi spiegano con le sinergie tra i due gruppi che sono riusciti a implementare più velocemente di quanto fosse previsto. Ma il racconto non sta completamente in piedi. E a poco serve sottolineare che i margini in Nord America sono saliti a un record del 16,3% l’anno scorso perché Fca li registrava già negli anni passati mentre le sinergie di Psa in quei territori, dove non aveva neanche uno spillo, sono pari a zero. 



La prima spiegazione logica sono gli aiuti di Stato ricevuti un po’ in tutta Europa che hanno permesso di ridurre i costi del personale e quelli finanziari. Ma non bastano a spiegare cosa sia successo perché li hanno ricevuti tutte le aziende. Nel 2021 Stellantis ha perso quote di mercato (-0,6%) a favore di Renault e di Hyundai in Europa. Inoltre, ha venduto ancora 45 mila auto in meno rispetto a un anno disgraziato come il 2020 di piena pandemia. Rispetto all’anno precedente, nel 2021 perdono immatricolazioni Alfa Romeo (-28%), Fiat (-3,6%), Peugeot (-3,4%), Citroen (-1,7%). Anche negli Usa le cose per Stellantis non sono andate bene con circa 50 mila veicoli in meno venduti, mentre il totale positivo, rispetto all’anno del lockdown, è arrivato solo grazie al Sudamerica dove sono state piazzate 200 mila auto in più.  



Nonostante tutto questo, il fatturato complessivo di Stellantis è passato da 133 a 152 miliardi di euro e gli utili sono arrivati a superare quota 13 miliardi. Sono cresciuti i servizi finanziari, quelli legati alla mobilità elettrica e ai ricambi. Ma non basta a spiegare i risultati risultati di Stellantis: in un mercato in contrazione in cui si riducono le quote di mercato, tali risultati si ottengono solo in due modi: migliorando il mix di vendite, ovvero immatricolando vetture che costano di più, o vendendo auto a prezzi maggiori. 

Stellantis, come quasi tutti nel settore automotive, ha usato entrambi i metodi. La carenza di microchip che ha frenato la produzione ha finito per allungare i tempi di consegna assegnando il coltello dalla parte del manico ai concessionari. I clienti che, finora, potevano contare su una concorrenza spietata che finiva per abbassare i prezzi, sono rimasti disarmati. È finita l’epoca degli sconti, delle chilometro, zero, delle auto a zero margini che erano usate come collaterale per guadagnare sui servizi finanziari o sull’assistenza. Ora sono disponibili solo modelli superaccessoriati a prezzi vicinissimi al listino che, naturalmente ha dovuto registrare qualche ritocco all’insù. 

In questa situazione c’è da chiedersi se davvero i grandi costruttori abbiano bisogno di incentivi alla rottamazione a discapito, magari, delle categorie che rischiamo davvero di chiudere baracca e burattini: i fornitori di pezzi legati ai motori termici, i distributori di benzina, i meccanici che con i propulsori elettrici avranno meno della metà del lavoro. Queste categorie hanno una data di scadenza come le mozzarelle. E non è molto lontana. 

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